venerdì 24 ottobre 2025

 I peggiori anni della nostra vita

14 Ottobre 2025

di Paolo Naso. Politologo, Centro Studi Confronti.

Senza averne coscienza, sin qui noi figli del baby boom italiano degli anni Cinquanta abbiamo vissuto in una bolla di privilegi e di sicurezze. Dal primo giorno di scuola ci hanno insegnato che vivevamo in un’era di pace, illuminata da un progresso potenzialmente illimitato e garantita da un efficace sistema di deterrenza. Crescendo, abbiamo capito che il mondo era meno roseo di come ce lo descrivevano i nostri sussidiari, con le immagini rassicuranti di Gandhi, Martin Luther King, papa Giovanni XXIII e John F. Kennedy. Negli anni, la disillusione per quel racconto irenico si è fatta sempre più acuta e, di fronte alle immagini in bianco e nero che ci arrivavano dal Vietnam, abbiamo capito che la guerra continuava a essere una variante della politica. Ormai adulti, abbiamo provato il terrore del piombo di anni orribilmente violenti e abbiamo visto altre guerre. Reagimmo con grandi mobilitazioni pacifiste la cui memoria sopravvive nelle bandiere arcobaleno che conserviamo in qualche cassetto. E oggi sentiamo il peso di un’illusione e di un fallimento che si fa doloroso e angosciante di fronte ai drammi che si consumano nell’Est dell’Europa e in Medio Oriente. La seconda Nakba palestinese. Il termine Nakba sta per “catastrofe” e fu usato per indicare la sconfitta araba del 1948 e gli effetti che essa produsse su milioni di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case e le loro antiche proprietà per andare a vivere nei campi profughi, in West Bank, in Giordania, in Libano e altrove. Nakba è più di una sconfitta, è l’azzeramento di una storia, di una presenza, di qualsiasi progetto. Ed è esattamente quello che è accaduto con le operazioni militari israeliane che non hanno neanche provato a risparmiare civili, bambini, malati, gente affamata che si avvicinava al cibo. La Nakba segna anche il fallimento politico della leadership palestinese, affidata a fondamentalisti violenti e nichilisti nella Striscia, e a un’élite ormai delegittimata e spesso corrotta in Cisgiordania.

Il suicidio di Israele. È il titolo di un libro della storica Anna Foa che, analizzando la strategia israeliana del dopo 7 ottobre, vede la fine di un progetto politico democratico che, per quanto carico di contraddizioni e troppo idealizzato, almeno sino agli anni Novanta si è pensato compatibile con il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e di un loro Stato sovrano. Poi l’ondata del nazionalismo religioso ha sommerso ogni cosa e ha minato l’anima democratica dello Stato. Anziché cercare tra i suoi vicini alleanze che ne rafforzino la sicurezza, oggi Israele costruisce e moltiplica i suoi nemici, accecato da una potenza militare che crede sconfinata e da un sostegno politico americano pressoché illimitato. Anziché dare forza al progetto dei ”due popoli e due Stati” sostenuto dalla comunità internazionale, Netanyahu si vanta di avere definitivamente cancellato questo architrave della pace in Medio Oriente. Si avvera così il peggiore degli incubi: un piccolo Paese isolato e dipendente, Israele, circondato da vicini ostili che, magari per i loro interessi nazionali e non per quelli dei palestinesi, tenderanno a isolarlo e minacciarlo.

Il fondamentalismo che vince. Ha vinto con l’islamismo radicale che ha marchiato a sangue il 7 ottobre 2023, forse nella folle intenzione di innescare una nuova guerra globale in Medio Oriente. Ha vinto mobilitando i coloni ebrei e i loro sostenitori politici che occupano nuovi territori e ipotizzano l’annessione della Cisgiordania; ha vinto tra gli evangelical americani che, guardando alla Bibbia più come a un libro di Nostradamus che alla parola di un Dio di giustizia e di amore, profetizzano che le sciagure di cui siamo testimoni, e di cui i palestinesi sono vittime, aprono le porte al radioso ritorno del Messia.

La fine del diritto internazionale. Era stata l’utopia del secondo Dopoguerra: l’idea che una nuova governance sovranazionale potesse difendere la pace e risolvere i conflitti tra gli Stati ma che oggi, alla prova dell’attacco russo all’Ucraina e dell’occupazione israeliana di Gaza, mostra sepolcri imbiancati, burocrazie mute e impotenti. Siamo indignati, certo, persino pronti a mobilitarci, ma non sarà la nostra generazione a cambiare il corso della storia di questi anni. Per questo guardiamo carichi di speranza a chi si imbarca con la Global Sumud Flotilla; per questo riteniamo preziose le testimonianze di quanti, anche tra gli israeliani e i palestinesi, cercano di costruire una strada di dialogo e ragionevolezza; per questo cerchiamo di raccogliere tutte le forze che abbiamo per difendere le ragioni della pace e del diritto. Ci proviamo, ci dobbiamo provare, ma era ben altro il mondo che sognavamo e cantavamo quando eravamo giovani.