da Domani del 08/11/2025
Quando l’Ucraina rinunciò al suo arsenale nucleare
di Mark Kramer
Al momento della sua dissoluzione, l’Unione Sovietica possedeva oltre 30mila testate e bombe atomiche, dislocate in diversi punti del paese. La sicurezza di quell’arsenale divenne una priorità assoluta per i governi occidentali, soprattutto dopo il fallito colpo di Stato a Mosca dell’agosto 1991, che indebolì ulteriormente il potere centrale e accelerò la disgregazione dell’impero. Negli ultimi mesi di vita dell’Urss, le cancellerie occidentali si concentrarono ossessivamente su un unico obiettivo: impedire che le armi nucleari sovietiche cadessero in mani sbagliate.
In concreto, ciò si tradusse in una politica interamente incentrata su Mosca, volta a preservare un controllo unificato dell’arsenale, piuttosto che a promuovere un sistema condiviso che coinvolgesse anche le repubbliche prossime all’indipendenza.
IL DISINTERESSE OCCIDENTALE
All’epoca, i governi occidentali godevano di un’influenza considerevole e, se avessero subordinato il riconoscimento delle nuove repubbliche post-sovietiche alla creazione di un comando nucleare collettivo – che rendesse ogni impiego delle armi ex sovietiche soggetto all’autorizzazione congiunta di tutti gli Stati coinvolti – con ogni probabilità sarebbero riusciti nel loro intento. Purtroppo, gli apparati occidentali non mostrarono mai una reale disponibilità a promuovere un controllo condiviso dell’arsenale nucleare sovietico. Al contrario, considerarono naturale che il potere di comando restasse saldamente concentrato nelle mani di Mosca.
E la pressione degli eventi impose spesso soluzioni improvvisate. Al momento della dissoluzione formale dell’Unione Sovietica, il 26 dicembre 1991, una parte significativa dell’arsenale nucleare si trovava ancora al di fuori della giurisdizione della neonata Federazione Russa. L’autorità di comando sulle forze nucleari sovietiche rimaneva saldamente concentrata a Mosca, rafforzata da dispositivi fisici integrati direttamente nelle armi. Ma l’arsenale era di fatto disperso in tutta la regione.
Con il sostegno delle potenze occidentali, le autorità russe avviarono rapidamente il trasferimento di tutte le armi nucleari tattiche verso depositi centralizzati sul proprio territorio. Il processo si svolse in modo sorprendentemente rapido e ordinato, con pochi intoppi e ritardi.
Ben più complessa, invece, fu la questione dei missili balistici intercontinentali (ICBM). Dopo la disgregazione dell’Urss, essi rimasero dislocati in basi di lancio situate in quattro nuovi Stati indipendenti: la Federazione Russa, l’Ucraina, la Bielorussia e il Kazakistan.
L’Ucraina ereditò 46 ICBM SS-24, 130 ICBM SS-19 e 45 bombardieri strategici Bear-H e Blackjack, equipaggiati con circa 600 missili da crociera nucleari aviolanciati AS-15 (ALCM). Il governo ucraino rivendicò presto il “controllo amministrativo” su questi armamenti, inviando proprie truppe a sorvegliare le basi. Ma non ottenne mai il comando operativo di nessuna di queste armi.
Fin dalla fine degli anni Sessanta, infatti, il governo sovietico aveva accentrato a Mosca il controllo delle proprie forze nucleari, sia sul piano fisico sia su quello procedurale. Dopo la disintegrazione dell’Urss, quel controllo operativo rimase esclusivamente nelle mani dei vertici russi. Molti fisici, chimici e ingegneri ucraini avevano contribuito al programma nucleare sovietico, e alcuni di loro rientrarono in patria dopo il 1991.
L’Ucraina disponeva dunque di tecnici in grado di provvedere alla manutenzione ordinaria dei missili e dei silos presenti sul suo territorio. La manutenzione complessiva richiedeva però personale altamente specializzato, di cui solo la Russia disponeva.
Uno dei paradossi di questa fase storica fu dunque che la sicurezza delle forze nucleari strategiche ex sovietiche dislocate in Ucraina dipendeva, almeno in parte, dalla cooperazione con Mosca.
La politica interna e la congiuntura economica contribuirono poi a determinare il destino dell’arsenale nucleare in Ucraina, così come in Bielorussia e in Kazakistan. Esperienze traumatiche legate all’energia atomica in tutte e tre le repubbliche – dalle conseguenze della catastrofe di Černobyl’ in Ucraina e Bielorussia nel 1986, ai danni ambientali causati da quattro decenni di test a Semipalatinsk, nel nord del Kazakistan – avevano spinto l’opinione pubblica su posizioni nettamente antinucleari.
IL CONTESTO
Anche le dinamiche politiche interne ebbero un peso rilevante. L’elezione di Leonid Kučma a presidente dell’Ucraina nel luglio 1994 portò al potere un leader più incline al dialogo con la Russia su vari fronti. E poi ci fu la congiuntura economica. Le gravi difficoltà che l’Ucraina attraversò nella prima metà degli anni Novanta rafforzarono le pressioni esercitate sia dai paesi occidentali sia dalla Russia, affinché Kiev rinunciasse al proprio arsenale in cambio di benefici economici e garanzie di sicurezza. Le condizioni economiche, pur non rappresentando di per sé un fattore determinante, facilitarono il raggiungimento e l’accettazione di un accordo finale.
Il regime internazionale di non proliferazione nucleare, imperniato sul Trattato di non proliferazione (TNP), fu particolarmente rilevante durante alcuni dei dibattiti più accesi. A fare da sfondo a tutte le vicissitudini relative all’arsenale nucleare ex sovietico era la spirale di violenza che stava travolgendo la Jugoslavia, prima in Slovenia e Croazia nel 1991 e poi in Bosnia-Erzegovina a partire dal 1992, inducendo gli attori coinvolti a una certa cautela.
A differenza dell’atteggiamento ostile e bellicoso di Vladimir Putin negli anni ’10 e ’20 del ventunesimo secolo, inoltre, i leader russi della prima metà degli anni ’90 erano realmente interessati a cooperare con gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali. Era, sotto molti aspetti, un mondo diverso. Ma ciò che più colpisce, con il senno di poi, è quanto fossero limitate le reali alternative di cui disponeva l’Ucraina.
Nonostante tutte le criticità, l’Ucraina ebbe buone ragioni per rinunciare alle armi nucleari presenti sul proprio territorio, considerate le circostanze. L’idea, talvolta riaffiorata ancora oggi, che Kiev avrebbe potuto semplicemente trattenere gli ICBM e gli ALCM per diventare la terza potenza nucleare mondiale è una pura illusione. L’Ucraina non esercitava alcun controllo operativo su quelle armi e, anche se il governo avesse cercato di arruolare ex scienziati e tecnici per aggirare i sistemi di sicurezza e accedere al materiale fissile, si sarebbe scontrato con ostacoli tecnici e politici insormontabili.
Tutti gli impianti necessari alla fabbricazione delle testate nucleari si trovavano in Russia. Per dotarsi di un arsenale indipendente, funzionante e affidabile, Kiev avrebbe dovuto costruire da zero un’intera infrastruttura nucleare, con costi enormi e tempi lunghissimi. Un simile programma avrebbe compromesso i rapporti con gli Stati Uniti e con l’Occidente, e avrebbe potuto persino spingere Mosca a un attacco preventivo. Non sorprende, dunque, che i leader ucraini abbiano scelto di non imboccare quella strada.
Un’altra leggenda, periodicamente riemersa, è quella secondo cui i dirigenti ucraini sarebbero stati ingannati dalle “assicurazioni” contenute nel Memorandum di Budapest, firmato nel dicembre 1994 da Ucraina, Russia, Stati Uniti e Regno Unito, in cambio dell’adesione di Kiev al Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). In realtà, le fonti dell’epoca mostrano che il governo e il parlamento ucraino erano perfettamente consapevoli della natura limitata di quelle promesse.
Sapevano che le “assicurazioni” del Memorandum non costituivano vere garanzie, ma riprendevano impegni già sanciti dal TNP, dall’Atto finale di Helsinki e dalla Carta delle Nazioni Unite. Inizialmente, Kiev aveva chiesto garanzie politiche, economiche e militari ben più solide – e lo stesso Kučma accennò all’idea di una copertura nucleare statunitense – ma le “assicurazioni” che infine accettò risultarono sorprendentemente modeste.
La consapevolezza di questa debolezza era diffusa: nel dicembre 1994, l’ex presidente Kravčuk definì quelle promesse una semplice “illusione”, e lo stesso Kučma riconobbe che il Memorandum era solo un “documento politico”, privo di valore vincolante. Il governo ucraino cercò di ottenere impegni più sostanziali, ma una combinazione di pressioni diplomatiche e incentivi economici da parte dei paesi occidentali, in un momento in cui nessuno poteva immaginare gli orrori che la Russia avrebbe scatenato nel febbraio 2022, portò a quell’esito insoddisfacente.