lunedì 10 novembre 2025

Tra narcisismo ed immolazione

È possibile realizzare una sequela di Gesù che non sopprima l'ebbrezza e non soffochi il bisogno di pienezza e di piacere senza negare la croce di Cristo? Tra gli scogli di un narcisismo esasperato e il pericolo di una immolazione altruistica si apre, per il cristiano, la via dell’agàpe. L'agàpe è quell’amore che ha la sua scaturigine in Dio, la sua concretizzazione storica nella vita di Gesù. Egli è colui che dimostra con la sua esistenza concreta come Dio ama. Agàpe ci dona coscienza di essere amati da Dio, riconciliazione profonda e gioiosa con noi stessi, possibilità e impegno di aprirci alla fraternità: «chi ama Dio, ami anche il fratello» (I Giov. 4:21).

 

La cultura narcisistica

Narciso è stato troppo screditato e il narcisismo è stato moralisticamente liquidato come individualismo ed egoismo. Troppo poco si è parlato in difesa di Narciso per evidenziare l'importanza della realizzazione, della felicità del soggetto. Narciso ci ricorda quanto sia importante non dimenticare se stessi, il rimanere con noi, i pericoli della spersonalizzazione presenti in certe forme di amore per gli altri è fuga da noi stessi.

Sembra però indubbio che esiste un trionfo del privato che si traduce in una cultura narcisistica che, a volie, si presenta con esasperazioni tali da comportare una vera e propria fuga dal sociale: «Dopo le mobilitazioni politiche degli anni sessanta, gli americani hanno dirottato il loro interesse su questioni esclusivamente personali. Abbandonata la speranza di migliorare la vita in modo significativo, la gente si è convinta che quel che veramente conta è il miglioramento del proprio stato psichico: aderire alle proprie sensazioni, nutrirsi con cibi genuini, prender lezioni di ballo o di danza del ventre, bagnarsi nel mare della saggerza orientale, fare jogging, imparare a «entrare in rapporto», a «vincere la ‘paura del piacere’». Questi obiettivi, in sè innocui, se elevati alla dignità di programma e impastati nella retorica dell’autenticità e della consapevolezza, implicano di fatto il ritiro dalla politica e il ripudio del passato recente» (6). Si può in qualche modo parlare di un itinerario che va dalla politica all’autoanalisi o, meglio, ad un clima terapeutico in cui prevale la cura di se stessi. Il disagio collettivo tende a trasformarsi o ad essere interpretato come problema personale da sottoporre a intervento terapeutico. Il bisogno di immediata gratificazione rende meno attenti e disponibili a pagare dei prezzi per una causa che esiga i tempi lunghi, meno attenti alle lezioni del passato: «Il narcisista non ha interesse per il futuro, in parte perché il passato lo interessa pochissimo» (7), ma soprattutto perché le esperienze intense del presente diventano per lui assorbenti.

È proprio vero che va diffondendosi una nuova cultura terapeutica del narcisismo che «ha convertito l'individualismo predatorio dell’Adamo americano in un gergo terapeutico che osanna il solipsismo più che l’individualismo e scagiona l'egocentrismo in quanto manifestazione di «autenticità» e «consapevolezza» (8)? Esistono certamente, a livello diffuso, anche a causa delle disillusioni collettive di questi ultimi anni, molti elementi che denunciano una massiccia presenza di comportamenti in cui la realizzazione di sé diventa la propria prigione.

 

I guai dell’immolazione altruistica

Ma esiste (e non mi sembra meno funesto) un altruismo pervertito, malsano. Voglio dire che la formula, così largamente usata nelle chiese cristiane, del «vivere per gli altri», «sacrificarsi per gli altri» con cui noi intendiamo parlare dell’amore fraterno, va attentamente esaminata per evidenziarne valenze ed ambiguità.

Se con questa espressione indichiamo un esistere in funzione degli altri, una nostra personale subordinazione ad essi, dove va a finire il valore autonomo di ogni persona? Nè va dimenticato che, se da un lato essa esprime l'esigenza dell’uscire da sé e del concepirsi in una costante relazione con gli altri, dall’altro può accentuare tale movimento in una direzione di ‘altruismo salvifico’ ed immolatorio che definirei almeno ambigua. Voglio dire che certo modo di intendere la propria esistenza come altruismo si traduce in freguenti atteggiamenti di immolazione eroica e sacrificale nei riguardi di se stessi e di presunta portata salvifica nei confronti degli altri. Senza ignorare forti componenti di esasperata autoaffermazione che sovente tali comportamenti nascondono dietro inconsci camuffamenti. Esistono molti atteggiamentl missionari e salvifici in campo cristiano che costituiscono un vero e proprio fuggire da noi. Questo eroismo che ci rende 'vittime per i fratelli’, che ci fa 'dimenticare noi stessi’ può contenere troppi elementi ambigui sia sul piano psicologico che su quello teologico.

Per questi motivi preferisco parlare di un «essere ed esistere con gli altri» per recuperare la valenza, evangelicamente paradossale, del vivere per gli altri. Questa concezione mi sembra essere in linea con l'agàpe e la fraternità di cui Gesù ci dà testimonianza e aprirci sanamente alla suprema istanza dell’evangelo che può chiederci di dare la vita per i fratelli.

Nell'essere con gli altri mi paiono rispettati gli elementi costitutivi di un rapporto umano maturo nei terminl di una sana reciprocità e, nello stesso tempo, non viene dimenticato quel necessario «essere con se stessi» che non è narcisismo, ma sano amore di sè. Inoltre l’essere con gli altri libera il nostro rapporto da ogni presunzione di essere i salvatori degli altri. Che poi a volte la nostra vocazione cristiana possa chiederci un vero e proprio dare la vita per gli altri, ciò costituisce uno dei paradossi evangelici irrinunciabili, una punta agapica alla quale Dio può chiamarci sulla scia di Gesù.

Ma nel vivere con gli altri esiste uno spazio infinito di agape, di fraternità. Quello che caratterizza l'agape è proprio questo vivere in comunione con i fratelli, che rende disponibili a portare gli uni i pesi degli aliri, a perdonarsi, a sentirsi solidali nel cammino quotidiano, a non ignorarsi, a spartire gioie, lotte e speranze. L'agape ci manifesta che non siamo semplicemente gli uni vicini agli altiri, quasi per caso, come un mucchio di persone, come un grappolo di ‘io’ accostati ma estranei, come la semplice somma di diverse individualità. L'agape ci svela che noi non possiamo che esistere in relazione, che il concentrarci esclusivo su noi stessi, il fermarsi a noi spezza la fraternità.

È proprio l'amore che Dio ci dona in Gesù che non ci permette né di dimenticare noi stessi né di dimenticare gli altri.

Anche su questo punto è per noi normativa la vita di Gesù e proprio alla sua testimonianza dovremo continuamente rifarci. In lui il Padre ci ha mostrato che cos'è l'amore in una persona autenticamente libera e realizzata. Morire a se stessi, secondo il vangelo, non è l'annientamento davanti all’altro, non è la sottomissione a un super-io legalista e colpevolizzante. « Il significato è tutt’altro: morire a se stessi è perdere il narcisismo primitivo che rende l'uomo inabile a ogni vera vita sociale, a ogni scambio profondo con l’altro» (9). Senza questo processo nessuno diventa soggetto autonomo e responsabile, capace di amarsi e di amare profondamente l’altro.

Franco Barbero, 1970