Superati lo scandalo e lo scoglio del copyright vaticano, ho letto con interesse l’enciclica di Benedetto XVI che, dopo i primi scontati commenti, sembra già caduta nell’oblio.
In realtà, più che di un discorso teologico, si tratta, a mio avviso, di una lettura filosofica della storia, inserita in una cornice teologica, non priva di calde risonanze emotive. Chi ha la mia età, ricorda bene alcuni dibattiti culturali di largo respiro su eros ed agape di alcuni decenni fa. Il papa li ha ripresi e, in taluni passi, ricollocati efficacemente e “provocatoriamente” nel contesto polemico attuale.
Ma nel complesso, dietro un linguaggio alato, emerge un’enciclica evanescente “che lascia scontenti tutti, dunque un’enciclica di cui alla fine tutti parleranno bene... E’ un testo speculativo, che tenta di portare il ragionamento a monte per intendersi sui principi. Questo potrebbe diventare il suo limite fra una settimana, dieci giorni, se non riuscisse a sfuggire alla trappola del dimenticatoio... Insisto... nessuno ha di che rallegrarsi dopo quest’enciclica” (A. Melloni, Adista, 11 febbraio 2006). Chi tra i credenti negherà che Dio è amore? Chi metterà in dubbio l’attualità e la rilevanza del tema?
Per un cristiano la riflessione sull’amore di Dio, a partire dalla testimonianza molteplice della Bibbia, è piena di implicanze molto concrete per la sua vita personale e per l’esperienza collettiva. Ma, come lo stesso Benedetto XVI ricorda all’inizio del suo scritto, “il termine amore è oggi diventato una delle parole più usate ed abusate” (n. 2). Il problema sta proprio nella incapacità di vedere che l’amore di Dio si fa storia laica, che la chiesa cattolica ufficiale non è l’arca universale di salvezza, che Dio ci invita a liberarci dalla presunzione ecclesiocentrica, che Gesù non ha distribuito patentini o certificati salvifici, ma si è fatto compagno di viaggio e seminatore di fiducia in Dio e nelle persone.
Così ci troviamo davanti ad un Dio amore che, però, viene “amministrato” da una chiesa che si presenta ancora come maestra di umanità e detentrice della “rubinetteria” della salvezza. Questo io leggo, prima di tutto, nell’entroterra di questa enciclica, sullo sfondo.
Irrilevanze
Chi è abituato all’indagine biblica, al lavoro esegetico e teologico, non ha trovato davvero nulla di nuovo. Si può ben capire come Jean-Jacques Peyronel, un’autorevole voce protestante, abbia potuto scrivere che “a noi protestanti questa enciclica non dice nulla di nuovo” (Riforma, 10 febbraio 2006). Lo posso sottoscrivere come prete cattolico.
Ma non meno critico è il giudizio di quei teologi della liberazione che da decenni lamentano l’astrazione di certi linguaggi ufficiali. Questa teologia “che non si sporca le mani”, che vola astralmente lontana dal quotidiano, ha qualche parentela con il Dio biblico che si coinvolge dalla parte dei più deboli?
Molto semplicemente, ci si domanda, questo linguaggio non è un modo elegante per confinare Dio tra le grandi e nobili idee per poi gestire più disinvoltamente gli affari a modo nostro? E quando ai numeri 2 e 11 l’enciclica parla dell’amore umano nei termini enfatici, tipici della retorica matrimoniale cattolica, opera di teologi maschi e celibi, ci si domanda quando la gerarchia imparerà qualcosa da questa società, quando riuscirà ad “espandere”, ad arricchire il concetto di famiglia. Quando capirà che le nuove famiglie non sono contro la famiglia, ma una sua ulteriore ramificazione e valorizzazione?
Silenzi
Si tratta, a mio avviso, di una enciclica i cui silenzi denotano una persistente mancanza di coraggio. “Ratzinger avrebbe dovuto dare uno sguardo alla storia concreta della chiesa romana, alle sue normative in materia di etica sessuale, intrisa di sessuofobia, che tante persone ha fatto soffrire; e anche a come questa chiesa abbia oppresso le donne teorizzando un maschilismo mai smentito. Ma, di tutto questo discorso, non vi è nemmeno l’ombra nell’enciclica.... E termina citando la Madonna del Magnificat, ricordata come “donna che ama”, non però come quella che loda l’Altissimo “che depone i potenti dai loro troni” (Adista, 4 febbraio 2006). Questa è davvero la chiesa del silenzio verso i potenti.
Torna più che mai attuale il grande avvertimento del vescovo Ilario di Poitiers (367): “Ora combattiamo contro un nemico insidioso, un nemico che lusinga..., non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni dandoci così la vita, ma ci arricchisce dandoci così la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci percuote ai fianchi, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada ma ci uccide l’anima con il denaro, l’onore, il potere”. Ovviamente, quando aldilà di generiche deplorazioni, non si denunciano le torture di Guantanamo, le “esportazioni belliche di democrazia” e tante altre nefandezze che hanno precisi responsabili, ogni discorso sull’amore diventa una canzoncina che trova d’accordo sia Erode che Ponzio Pilato...
L’annuncio cristiano comporta concretamente la rottura dei silenzi complici con i poteri che opprimono e ci spinge ad uscire dai linguaggi diplomatici e dalla fede “pura e irreale. La missione della chiesa è annunciare l’utopia cristiana sulla dignità della vita, formare le coscienze e rispettare le decisioni che le persone prendono. Non può funzionare come ha funzionato, e cioè come un superego autoritario. Il divieto di utilizzare gli anticoncezionali in un mondo in cui si diffonde l’Aids è semplicemente irresponsabile e nell’Africa è persino criminale. La chiesa dice di conoscere il mondo, di conoscere l’umanità, ma è soltanto retorica, non rispetta infatti i diritti delle donne, degli omosessuali e dei divorziati” (Leonardo Boff, Un papa difficile da amare, Datanews 2005). Concretamente in questo testo teorico “non si parla di guerra, di terrorismo, di civiltà, di scienza e di tutto ciò che agita il mondo cattolico”(Melloni, La Stampa, 26 gennaio 2006).
Questo genere di silenzi ha una storia lunga dentro le chiese cristiane. Spesso si dicono e si scrivono valanghe di parole fumogene, astratte, altisonanti che sembrano studiate appositamente per non dire nulla, per evadere da quella parte di realtà con la quale non si vuole fare i conti. Sovente quanto più si moltiplicano i documenti, i pronunciamenti e le encicliche, tanto più emergono il vuoto o la semplice incapacità di elaborare un pensiero nuovo.
Talvolta, poi, corriamo un altro rischio, non meno grave. I nostri linguaggi religiosi, in gara con le chiacchiere di molti politici, danno per scontato che le parole ci dispensino dalle azioni, dai fatti, dalle scelte concrete, come se la vita fosse soprattutto un gioco di belle parole, un evento linguistico.
Ambiguità
Non posso dar torto a chi pensa che, tutto sommato, l’enciclica di Ratzinger, più che un apporto concreto alla soluzione dei problemi urgenti dell’uomo moderno, sembri un elogio immeritato, una celebrazione acritica, un contributo promozionale per una istituzione che guarda soprattutto al passato. Ma come si può parlare di laicità, di amore, di giustizia quando, continuando sulla scia del predecessore, l’attuale pontefice e la gerarchia cattolica lottano con ogni mezzo, in Italia come in Spagna e un po’ dovunque, per salvaguardare privilegi, estendere la propria influenza nelle vicende politiche? Se Dio è amore, come è possibile che la gerarchia continui a emarginare le voci che non si allineano agli interessi dell’istituzione cattolica? Non è forse lecito e doveroso domandarsi, con Eugenio Scalfari (Repubblica, 5 febbraio), se permane il velo di ipocrisia tra il dire e il fare che pure viene denunciato in molti passi della “Deus caritas est”? E’ ben lontana dalla realtà che abbiamo sotto gli occhi l’affermazione secondo la quale “tutta l’attività della chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo... e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana” (n. 19).
Non la pensano proprio così i separati e divorziati cattolici, le coppie di fatto, i gay e le lesbiche credenti, i preti che si sono visti defenestrare “per colpa di un amore”, i teologi che sono stati estromessi dall’insegnamento o dalla redazione di alcune riviste, le università cattoliche che, per “scarsa ortodossia”, si sono viste tagliare i fondi, le donne che esigono pari opportunità di ministero nella comunità cristiana, quei seminaristi che si sentono inquisiti rispetto alla loro identità sessuale ed affettiva. Cresce a dismisura il numero delle donne e degli uomini che si sentono stranieri in questa chiesa. L’elenco ci porterebbe ad esplorare un intero pianeta. L’umorismo ha una funzione “ristoratrice” anche dentro le istituzioni ecclesiastiche, ma questa leggerezza, questa banalizzazione, questa negazione della realtà è un umorismo amaro, sfacciato, intriso di menzogne.
E ci vuole un bel fegato a ribadire che la chiesa non fa politica e a riproporre una centralità della dottrina sociale della chiesa che “argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere mano” (n. 28). Sembra che la gerarchia cattolica parli di ragione, diritto naturale e natura di ogni essere umano come se queste “discusse” realtà fossero un suo possesso, come se della loro retta interpretazione essa fosse la suprema custode e garante. Ma c’è un punto che ho letto con intima sofferenza e che respingo con fermezza: “La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo” (n. 25). Questo per me non è soltanto un errore teologico; è soprattutto un orrore, un delirio.
Il mondo è la famiglia di Dio... con tutto il creato. La chiesa cattolica deve lasciare la maiuscola, non ha nessuna primogenitura perché Dio non si è fatto cristiano, tanto meno cattolico. Semmai noi cristiani abbiamo una particolare visione di Dio, ma Dio non è riducibile al nostro “quadro” di interpretazione. Dio non si lascia fotografare in nessuna dottrina. Qui su questa arroganza strutturale, quasi congenita, neppure più avvertita, sta, a mio avviso, il vero nodo che le gerarchie cattoliche debbono affrontare. Nel libro del profeta Isaia si leggono alcuni versetti straordinariamente efficaci ed espliciti per ammonire Israele nei momenti in cui può credersi l’esclusivo o il privilegiato erede dell’attenzione amorosa di Dio. L’Egitto e l’Assiria, classici nemici di Israele, vengono collocati sullo stesso piano: “In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria, l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria... Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra... Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (19,23-25 passim). Che lezione anche per noi cristiani!
Non invoco alcuna dissoluzione dell’identità cristiana, che anzi mi è molto cara, ma essa, a mio avviso, deve smantellare tutte le categorie e gli atteggiamenti di superiorità, di esclusività. Semmai, per me, la chiesa è particolarmente presente nella carovana umana degli ultimi. La famiglia di Dio è ovunque e nessuno di noi può tracciare perimetri, confini, un dentro e un fuori. Il rischio di ridurre Dio al direttore generale della nostra azienda è sempre dietro l’angolo.
E finisco con un’altra osservazione dissonante rispetto all’enciclica.
“A Maria affidiamo la Chiesa, la sua missione a servizio dell’amore” (n. 42). E no, caro papa Benedetto, questo è troppo... E’ il consueto fervorino mariano finale di tutti o quasi i documenti pontifici, ma il contenuto mi sembra grave. Con tutto il bene che voglio a Miriam di Nazareth, moglie di Giuseppe, madre di Gesù e di una numerosa famiglia (Marco 6 e Matteo 13), io credo che la chiesa debba affidarsi a Dio e alla nostra comune responsabilità. Non facciamo confusione e non scambiamo la fede per qualche discutibile devozione.
Mi sembra di poter dire che, se il cristianesimo cerca vie di un rinnovamento profondo, le encicliche si collocano sul versante del passato, lo ripetono, apportano qualche ritocco, restaurano e verniciano. Non vanno oltre.
Anche questa constatazione, a mio avviso, costituisce un rimando a leggere con discernimento e rispetto critico questa enciclica e soprattutto uno stimolo a “cercare altrove”, perché è proprio “altrove” che i sentieri di Dio, delle donne e degli uomini si incontrano e l’eros e l’agape possono vivere insieme in una tensione feconda e felice.
Nessun commento:
Posta un commento