- Mia intervista a don Ferdinando Sudati, a proposito del libro Le chiavi del paradiso e dell’inferno. Materiale per una riforma della confessione, Marna, Barzago (Lecco) 2007
Da quanto tempo si dedica allo studio del sacramento della penitenza?
L’interesse è nato dal 1974, l’anno in cui è uscito il nuovo Rito della penitenza, e ha preso consistenza nel 1983 allorché a Roma si è tenuto il Sinodo dei vescovi che ha trattato della riconciliazione e penitenza nella Chiesa.
Lei è teologo?
Non lo sono se parliamo di titoli accademici, che non ho, ma ho alle spalle un regolare quinquennio teologico, con tutti gli esami e tesina finale in un Istituto teologico che oggi – ma fin da subito dopo che l’avevo lasciato – ha ottenuto l’affiliazione a un’università pontificia e quindi l’autorizzazione a erogare i gradi accademici. Che mi avrebbero fatto comodo, s’intende!
Proprio per la loro utilità concreta, il desiderio di conseguirli si è fatto sentire più volte, ma me l’hanno impedito gli ingranaggi della vita pastorale e, soprattutto, la constatazione che lo studio che lì si fa è talmente obsoleto o sottosviluppato, che non sarei più riuscito a sopportarlo, cioè a dedicarvi tutto il tempo che richiede. Avrei sperimentato un dissidio interiore continuo.
Veniamo al suo libro Le chiavi del paradiso e dell’inferno…
Il titolo fa riferimento al “potere delle chiavi”, che a sua volta si richiama alle parole (metaforiche! se pure sono sue e non piuttosto della primitiva comunità) di Gesù a Pietro, rivolte poi anche ai discepoli, con la metafora del “legare e sciogliere”, secondo il vangelo di Matteo.
Un “potere” che la Chiesa, in quanto gerarchia, ritiene le sia stato affidato come facoltà di perdonare i peccati o di rifiutare o porre condizioni a tale perdono, a cui Dio stesso si atterrebbe, in terra e in cielo, nel presente e per l’eternità.
La Chiesa gerarchica si considera, insomma, la detentrice e l’amministratrice unica della misericordia di Dio che, in pratica, funzionerebbe solo attraverso i canali da lei stabiliti, siano essi regole liturgiche, norme di diritto canonico, documenti del magistero e quant’altro.
Mi pare, come spesso avviene, che sia però il sottotitolo a chiarire l’intento del libro...
Infatti, vuole offrire del “materiale per una riforma della confessione”. In realtà, il libro contiene qualcosa di più.
Letto “trasversalmente”, cioè tenendo conto delle digressioni e delle osservazioni di passaggio, diventa un prontuario o un indice di ciò che non va nella Chiesa un po’ a tutti i livelli.
Secondo la figura retorica della sineddoche, si prende in considerazione una parte - in questo caso il sacramento della penitenza – per parlare del tutto, cioè della Chiesa.
Infatti, parto dal sacramento, ma introduco sufficienti accenni ad altri argomenti, per dire che in realtà è un intero sistema ecclesiastico-teologico che è giunto al capolinea, che sta cadendo a pezzi o, se vogliamo, sta implodendo.
È grave quanto lei sta dicendo!
Sì, ma è più grave che si rimanga tranquilli dinanzi a quello che ci aspetta. Siamo di fronte a una crisi di tale magnitudine che solo la piaggeria dei teologi di corte e l’acquiescienza degli altri, che dipendono per il loro sostentamento e la loro carriera da strutture ecclesiastiche - e sono la quasi totalità, almeno in Italia -, unita alla cecità, per mancanza di cultura religiosa e di capacità critica, degli operatori pastorali, possono permettersi d’ignorarla.
Dobbiamo prendere sul serio quello che Hans Küng e altri hanno chiamato il “cambio di paradigma”, perché ci siamo dentro in pieno ma non stiamo facendo nulla, per quanto ci riguarda.
Potrebbe spiegare meglio in cosa consiste, per lei, questa crisi?
È prima di tutto una crisi di significato del linguaggio religioso quella a cui stiamo andando incontro: le nostre parole si sono svuotate, non riusciamo più a dire la fede in termini comprensibili per l’uomo d’oggi.
È a dir poco drammatica, ma l’ambiente teologico non sembra accorgersene o, forse, la teme così tanto che preferisce coprirla e lasciarla in eredità alle prossime generazioni.
Il tonfo delle categorie in cui si esprime il linguaggio religioso è verticale, con effetto domino. Si paga lo scotto di essere vissuti di rendita su dogmi che esprimono la fede e la cultura dei secoli passati o, meglio, di aver voluto dogmatizzare il mito, il simbolo, la metafora.
Per nostra fortuna, saranno proprio queste dimensioni, con la loro duttilità, a trarci d’impaccio e a far recuperare significato alla nostra fede, che resterà la stessa nel suo nucleo ma diversa sotto tanti aspetti.
Se lo vogliamo, naturalmente, e se saremo disposti a elaborare una nuova sintesi della fede cristiana, senza i gravami dell’epoca arcaica da cui proveniamo.
Potremo, cioè, a partire dal linguaggio simbolico, che è stato sempre presente nel nostro impianto religioso e che è il più idoneo a esprimere i suoi contenuti, trovare un nuovo modo di dire le verità (trascendenti) in cui crediamo, o possiamo ancora credere, al punto in cui siamo giunti nella nostra evoluzione scientifico-filosofica. Si tratta di un’operazione di grande portata e non indolore, ma alla fine feconda.
Ritorniamo alla confessione o penitenza: qual è, in breve, la sua proposta?
Nella sua base minima e, peraltro, richiesta da più parti è quella d’introdurre subito l’uso della terza forma presente nel Rito della penitenza del 1974, ma senza le clausole ivi previste che, di fatto, la umiliano e la rendono inservibile.
Vale a dire, che la celebrazione comunitaria sia messa sullo stesso piano di quella individuale, che è attualmente la prima forma, quanto a possibilità di utilizzo, e che non comporti la confessione successiva dei peccati già perdonati.
Sottolineo questo perché pare ci sia in vista una revisione del Rito che andrà nella direzione contraria, con precedenza assoluta alla celebrazione individuale e pratica espunzione di quella comunitaria, che non solo rimarrebbe con le condizioni restrittive, ma verrebbe messa addirittura in appendice alla nuova edizione e, aggiungo io, possibilmente in caratteri minori!
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