mercoledì 15 agosto 2007

LIBRI - LIBRI - LIBRI

THOMAS CAHILL, Desiderio delle colline eterne, Fazi Editore, Roma 2003, pagg. 324, € 16,50

Saggista di fama internazionale oltrechè studioso di teologia e di filosofia medievale, il nostro Autore – notissimo anche in Italia a chi ha interessi biblici e teologici – è dotato di una penna “magica”. La lettura di queste pagine è piacevole e coinvolgente. Egli ovviamente compie le sue scelte sempre discutibili, sul piano esegetico, storico ed ermeneutico, ma l’opera è sempre documentata.

Le pagine che più mi hanno interessato per la chiarezza e la “spregiudicatezza” sono quelle che trattano del Vangelo di Giovanni. “Non sappiamo niente dell’autore di questo Vangelo, a parte il poco che si può desumere dal suo testo. La struttura del suo linguaggio, che a volte lo fa apparire un corpo alieno nel corpus del Nuovo Testamento, a volte ha spinto gli studiosi a tesi fantasiose sulla sua composizione. Per esempio, c’è chi ha sostenuto che la complessità filosofica di questo Vangelo ne indichi l’appartenenza alla seconda metà del II secolo. Altri hanno notato che il suo uso accurato di dettagliate informazioni ebraico-palestinesi depone a favore di una collocazione negli anni Quaranta del I secolo. L’ipotesi del II secolo, fondata sul presupposto di una raffinata influenza greca sulla struttura concettuale del Quarto Vangelo, perse terreno quando i rotoli del Mar Morto rivelarono che concetti che una volta si ritenevano derivati da ambienti filosofici greci – come “il Verbo” e le divisioni cosmiche tra luce e tenebre – erano diffusi tra gli esseni del deserto della Giudea anche prima del tempo di Gesù. Un crescente consenso accademico colloca la redazione del Vangelo come adesso lo conosciamo nell’ultimo decennio del I secolo (o, al più tardi, nel primo decennio del II secolo). Gli elementi palestinesi di questo Vangelo, tuttavia, indicano che era in principio un’opera basata sulla testimonianza di un testimone oculare di Gesù, ma rivista ed estesa nel corso del I secolo da mani successive. Ciò che abbiamo ereditato oggi è un pastiche di testimonianze originali e di successive riflessioni teologiche. Le giunzioni del pastiche sono quasi invisibili perché questo vangelo ha ricevuto la sua forma attuale da un redattore abile e raffinato” (pagg. 218-219).

Nel Vangelo di Giovanni Gesù attira continuamente l’attenzione su di sé: a radicale differenza di Marco, Matteo e Luca e traccia evidente di una elaborazione molto lontana dal Gesù storico. I vangeli sinottici non hanno mai fatto di Gesù un “onnisciente” (pag. 225).

“Questi segni della divinità, inseriti senza dubbio da Giovanni l’Anziano” (pag. 225) non riescono a cancellare del tutto le continue prose dell’umanità di Gesù che quasi certamente costituiscono la prima stesura dello stesso Vangelo.

“Nessuno dei credenti che noi abbiamo incontrato finora - negli scritti del Nuovo Testamento – né Marco né Matteo, né Paolo né Luca, nessuno degli apostoli e nessuno dei discepoli che si riunirono attorno a Gesù e poi costituirono la prima Chiesa – riteneva che Gesù fosse Dio. Affermare questo gli sarebbe parsa una bestemmia. Dopotutto, la loro fede in Cristo era una forma di giudaismo; e il giudaismo era l’unico monoteismo al mondo. Dio aveva fatto risorgere l’uomo Gesù e l’aveva reso Signore. Anche se il suo è adesso il Nome con cui siamo salvati, egli non risorse da sé: una simile idea sarebbe stata impensabile” (pag. 217).

Il nostro Autore procede con affermazioni ormai pacificamente acquisite, ma sempre stimolanti e preziose per la loro chiarezza: “In Giovanni le deliziose parabole dei Sinottici non si trovano da nessuna parte, rimpiazzate da nobili ma noiosi discorsi che a volte occupano diverse pagine. L’autore, deciso a non farci dimenticare chi è Gesù, può immergerci in una soffocante solennità che ci spinge a desiderare l’energico e concreto Gesù dei Sinottici. Il Gesù di Giovanni è sempre controllato. In Marco e Matteo Gesù muore in croce tra dolori indicibili, incapace di esprimersi, con “un forte grido”, quasi un urlo straziante. In Luca, avendo perdonato tutti e promesso il paradiso al Buon Ladrone, pronuncia le sue ultime, eleganti parole al Padre, citando il Salmo 31: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Luca è già sul sentiero verso la teologia giovannea del Dio–Messia. Ma in Giovanni, in punto di morte, Gesù conserva il pieno controllo di sé. “Tutto è compiuto!”, dice il Gesù giovanneo. “E chinato il capo”, scrive Giovanni, “rese il suo spirito” – che d’ora in poi appartiene al mondo.

Il Gesù di Giovanni è il Cristo circondato di gravitas degli antichi credi, dell’arte religiosa più dozzinale, delle sacre rappresentazioni tedesche della Passione, dei film hollywoodiani. E’ l’icona immobile amata da ecclesiastici e teologi. E’ come se la riverenza simbolica di Giovanni abbia prodotto un’icona troppo solenne per essere toccata da mani immonde e non consacrate di un uomo qualsiasi – anche se è nel Vangelo di Giovanni che Tommaso il miscredente è invitato da Cristo, crocifisso, trafitto e adesso risorto, a verificare di persona: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato”. Il peso dell’umano e del corporeo, della fatica e dell’imperfezione viene alla fine alleviato in Giovanni dall’imponderabile illuminazione del divino. In questo consiste lo stesso processo di iconizzazione che nei secoli successivi solleverà Maria di Nazaret dalle colline della Galilea e la insedierà tra le costellazioni celesti come theotokos, madre di Dio, nuova incarnazione della Grande Madre dell’Eurasia, in sostituzione della detronizzata Diana degli Efesini.

Come tutte le innovazioni religiose, la teologia di Giovanni fu il prodotto di una cultura e, se la si vuol capire, deve essere considerata la componente di un processo culturale in via di sviluppo. Questa cultura aveva in sé la boria e l’esagerazione retorica ellenistiche o addirittura asiatiche che cominciarono a diffondersi con l’apprezzamento di Alessandro per le cerimonie orientali. I cinici senatori romani, che dichiaravano sempre che questo o quell’altro Cesare erano dèi, non ne prendevano mai i decreti alla lettera, ma ne approvavano le maestose statue di marmo e le insopportabili nuvole d’incenso, i vasi lucenti e gli eleganti fedeli togati, che si chinavano tutti all’unisono: questi erano metodi standard per creare stabilità politica, basati in parte sull’ingenuità popolare. Nei secoli successivi alla presentazione di Giovanni della sua alta cristologia, l’iperbole poetica e liturgica si cristallizzerà a volte in rigidi dogmi, finchè tutto quello che la chiesa possiede – dai sacerdoti consacrati al pane consacrato, dai libri ai contenitori sacri al cero pasquale, lodati in canti stravaganti ed estatici la notte di Pasqua – sembrerà risplendere della luce della sua stessa divinizzazione.

Molti di coloro che sono a proprio agio nella tradizione sinottica, e persino con Paolo, avvertono che qui sulla soglia del Vangelo di Giovanni, devono separarsi dal Nuovo Testamento. Siano credenti o semicredenti, ebrei, umanitaristi o agnostici: potrebbero anche plaudire tutti alle intuizioni e ai progressi di Paolo e degli evangelisti sinottici, ma quando arrivano nella dimensione del bagliore celestiale di Giovanni restano confusi e spaesati. A metterli a disagio non è soltanto la figura esagerata del Dio-Uomo. Perché è in Giovanni che possiamo individuare non solo la fonte certa delle dottrine esaltate del successivo cristianesimo (le quali nemmeno godono dell’approvazione incondizionata di ogni cristiano) ma anche una sensazione di suscettibilità e intransigenza che emergerà più volte, e con risultati sempre più devastanti, in tutto il corso della storia occidentale.

In Giovanni “i giudei” sono nemici, spesso (anche se non sempre) indicati con disprezzo, la gente perduta che non ha “altro re all’infuori di Cesare”. Questo atteggiamento non può essere emerso al tempo di Gesù, quando lui e i suoi seguaci erano ebrei. Né può essere fatto risalire alle polemiche di metà secolo del primo movimento di Gesù, quando tutti i suoi leader – uomini come Giacomo, Pietro e Paolo (che si autodefiniva “ebreo da ebrei”) – erano profondamente consapevoli delle loro radici ebraiche e si consideravano solo predicatori di un giudaismo realizzato. L’antigiudaismo di Giovanni si può piuttosto far risalire agli ultimi decenni del I secolo, quando il braccio di ferro tra rabbini e messianisti si era surriscaldato fino al punto di ebollizione e i messianisti venivano espulsi con la forza dalle sinagoghe eurasiatiche e ufficialmente maledetti nelle liturgie ebraiche. Il senso di perdita che derivò da questo esecrabile ostracismo non andrebbe minimizzato, anche se non possiamo non esserne consapevoli, perché pulsa ancora nei sentimenti feriti del Quarto Vangelo, introdotti nel racconto della vita di Gesù da una comunità mista di ebrei e gentili degli anni Novanta, probabilmente sfuggiti all’esodo dalla Palestina a Efeso ma che ancora avvertivano le ferite della loro dipartita finale” (pagg. 228 - 229).

Ripercorrendo i primi cento anni di cristianesimo – dalla nascita di Gesù nel regno di Cesare Augusto alla redazione finale del Vangelo di Giovanni (e dell’ultima delle lettere del Nuovo Testamento) intorno all’anno 100 – ci imbattiamo in quello che sembra uno sviluppo in straordinaria, rapida successione. Gesù il profeta ebraico che accettò il giudizio di altri di essere il loro Messia (e può anche darsi che avesse promosso questa identificazione), fu giustiziato dai romani in un modo così orribile che i suoi seguaci non poterono mai dimenticarlo. La loro successiva affermazione che è “risorto” non cadde su orecchie sorde, ma convinse molti; e la loro piccola setta palestinese si trasformò in un movimento che, come semi sparsi al vento, si diffuse in tutto il mondo romano, mettendo radici soprattutto nei centri urbani che avevano una rilevante presenza ebraica.

La religione di questi aderenti che finirono per essere chiamati “cristiani” apparve all’inizio come una forma un po’ anomala di giudaismo, ma gradualmente si allontanò dai cardini dell’ortodossia giudaica, non tanto per le sue preoccupazioni etiche, che rimasero incentrate sui valori tipicamente ebraici della giustizia, della misericordia, della carità e della fratellanza, quanto per la sua teologia innovativa, che fece di Gesù non solo il Messia ma anche il Signore dell’Universo che siede alla destra del Padre. Più i cristiani si spinsero a deificare Gesù, più tesero a ripudiare gli ebrei dai quali avevano avuto origine. Più i cristiani meditavano sugli eventi della vita di Gesù e sulle loro successive esperienze della sua “risurrezione”, più egli sembrò innalzarsi nei cieli, finchè iniziarono ad acclamarlo non solo come “Salvatore del Mondo” ma come “Figlio Unigenito di Dio” le cui sofferenze ci avevano redento dal peccato e la cui risurrezione sosteneva la speranza della nostra” (pag. 236).

Siamo ormai mille miglia lontani dal Gesù storico e sta per nascere una nuova religione: “La chiesa del Discepolo Amato si era trasformata in una specie di isola che i cambiamenti geologici hanno distaccato dal continente. Per molti anni ebbe uno sviluppo separato: dagli ebrei, dagli “eretici”, persino dagli altri cristiani “ortodossi” “(pag. 231).

Fu con il secondo secolo che la comunità giovannea cominciò a trovare spazio e la sua cristologia alta cominciò a “sedurre” e la sua “peculiare letteratura” cominciò a trovare posto nella “biblioteca” delle origini cristiane.

E così si getta il ponte verso un cristianesimo dogmatico: “Se Dio può così farsi carne, Gesù deve essere l’auto-rivelazione di Dio e, dunque, di Dio in una forma molto più integrale ed essenziale di qualsiasi profeta precedente (e semplicemente umano). E’ quest’ultimo pensiero che costituisce il ponte tra le prime teologie e le grandi affermazioni cristologiche del II secolo; più di ogni altro documento del Nuovo Testamento è il Vangelo di Giovanni a darci un’immagine di questo ponte mentre viene edificato, quasi un’istantanea di questa nuova teologia durante il processo di costruzione. Alla fine del II secolo Ignazio di Antiochia, uno dei primi grandi vescovi, parlerà senza ambiguità del nostro Dio, Gesù Cristo” (pag. 220).

Chi è avvertito di questi “passaggi” storici può leggere con gioia questo Vangelo che “riesce ancora a incendiare di rabbia i lettori ebrei e a sconcertare i cristiani” (pag. 230). Senza queste avvertenze si può correre il rischio di confondere Gesù con Dio. Certo, oggi, moltissimi studi esegetici ed ermeneutici hanno fatto luce su questi "spostamenti", ma non è chiaro per tutti che “figlio di Dio” “è un’espressione ricorrente nella prima letteratura biblica in riferimento a chiunque potesse essere considerato portavoce di Dio” (pag. 215), “uno che pronunciava il messaggio di Dio” (pag. 216).

Così ridiventa pacifico che, in riferimento alle nostre origini, si può sottoscrivere che “anche il cristianesimo è una forma di giudaismo” (rabbino Shaye Cohen).

Intanto sarà bene ricordarsi che bisogna parlare storicamente di “cristianesimi” (il plurale è d’obbligo) e che, anche con l’ultima redazione del Vangelo di Giovanni, non siamo ancora arrivati alle formulazioni dogmatiche di Nicea e Calcedonia.

Spero che le citazioni qui riportate rappresentino un invito alla lettura del volume e anche una sollecitazione a leggere il Vangelo di Giovanni con rinnovato impegno e con maggiore consapevolezza dei problemi che il testo solleva.

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