Filippo Di Giacomo su La Stampa di venerdì 7 settembre scrive una pagina che ho trovato estremamente eloquente fin dal titolo “Perché ancora possiamo dirci cristiani”.
L’Autore onestamente confessa che “senza troppo impegno” abbiamo “tanti motivi” per dirci ancora cristiani. Il bello comincia, dopo questa affermazione, quando l’Autore enumera le ragioni che ci permettono ancora di dirci cristiani.
Possiamo sentirci cristiani ogni giorno, già di buon mattino, quando facciamo colazione: “Colazione ci viene dal pasto frugale che i benedettini prendevano nei giorni di digiuno mentre ascoltavano la lettura delle Collationes di Cassiano…
Pietanza, dal latino pietas, era la scodella di cibo che veniva distribuita ai poveri che bussavano alle porte dell’abbazia…
La ricotta ci viene da Cluny… E ai monaci del primo medioevo dobbiamo anche l’idromele, il sidro, la birra con il luppolo che nasce nei monasteri benedettini fiamminghi prima della fine del X secolo… Anche se le fonti scritte balbettano, esiste il fondato sospetto che il whiskey sia stato inventato dai primi monaci irlandesi sbarcati in Scozia, sul finire dell’VIII secolo”.
Poco dopo l’anno mille, i monaci ci lasciano, se ci limitiamo all’Italia, i vini dei Colli Euganei, il Freisa, il Greco di Gerace, il Greco di Tufo, il Mantonico, il Sancta Magdalena dell’Alto Adige, il Frascati, il Gattinara, il Bardolino, il Soave, il Valpolicella, il Locorotondo.
Se poi si allarga lo sguardo all’Europa, “ogni bottiglia ben nota ha portato la tonaca per almeno qualche secolo”. Nel secolo XIV fu la badessa del monastero svizzero di Dezaley a scoprire nuove finezze nella produzione vinicola.
Ma non basta. L’uso del primo dopobarba risale all’abbazia benedettina di Einsiedeln nel 1305: acqua aromatizzata, salvia, rosmarino, basilico, menta e maiorana. L’uso di radersi la barba ogni giorno nasce in monastero: gli sbarbati e profumati erano monaci sacerdoti e i barbuti erano monaci-conversi.
Tra il XV e XVI secolo i monaci fecero giungere alle nostre tavole le patate, i fagioli, i tacchini. Fu ancora un monaco ad importare il caffé dall’Africa al Brasile per farlo coltivare intensamente.
“Se avete voglia e tempo, fate una ricerca su dove e quando gli utensili europei sono apparsi oppure sono stati modificati e migliorati: è uno dei tanti metodi per avere sottomano la lista delle mamme della nostra modernità. E abitavano tutte in convento” (Ivi, pag. 35).
Insomma, proseguendo di questo passo, possiamo dire che abbiamo ragione di dirci cattolici perché c’è la Banca Cattolica e abbiamo tante piazze e vie dedicate ai santi, alle madonne…
L’articolo ha quasi il sapore amaro della derisione o, forse, semplicemente vuole dirci a che cosa si riduce il cristianesimo ufficialmente tanto pubblicizzato e diffuso.
Noi non possiamo dirci cristiani per queste ragioni, ma perché vogliamo coinvolgerci davvero sulla strada di Gesù.
Il rischio di un cristianesimo ridotto a folklore, a monumento, a grandi opere, a tradizioni non è da sottovalutare. Temo che questo cristianesimo “senza impegno” sia già per molti una triste realtà.
L’Autore onestamente confessa che “senza troppo impegno” abbiamo “tanti motivi” per dirci ancora cristiani. Il bello comincia, dopo questa affermazione, quando l’Autore enumera le ragioni che ci permettono ancora di dirci cristiani.
Possiamo sentirci cristiani ogni giorno, già di buon mattino, quando facciamo colazione: “Colazione ci viene dal pasto frugale che i benedettini prendevano nei giorni di digiuno mentre ascoltavano la lettura delle Collationes di Cassiano…
Pietanza, dal latino pietas, era la scodella di cibo che veniva distribuita ai poveri che bussavano alle porte dell’abbazia…
La ricotta ci viene da Cluny… E ai monaci del primo medioevo dobbiamo anche l’idromele, il sidro, la birra con il luppolo che nasce nei monasteri benedettini fiamminghi prima della fine del X secolo… Anche se le fonti scritte balbettano, esiste il fondato sospetto che il whiskey sia stato inventato dai primi monaci irlandesi sbarcati in Scozia, sul finire dell’VIII secolo”.
Poco dopo l’anno mille, i monaci ci lasciano, se ci limitiamo all’Italia, i vini dei Colli Euganei, il Freisa, il Greco di Gerace, il Greco di Tufo, il Mantonico, il Sancta Magdalena dell’Alto Adige, il Frascati, il Gattinara, il Bardolino, il Soave, il Valpolicella, il Locorotondo.
Se poi si allarga lo sguardo all’Europa, “ogni bottiglia ben nota ha portato la tonaca per almeno qualche secolo”. Nel secolo XIV fu la badessa del monastero svizzero di Dezaley a scoprire nuove finezze nella produzione vinicola.
Ma non basta. L’uso del primo dopobarba risale all’abbazia benedettina di Einsiedeln nel 1305: acqua aromatizzata, salvia, rosmarino, basilico, menta e maiorana. L’uso di radersi la barba ogni giorno nasce in monastero: gli sbarbati e profumati erano monaci sacerdoti e i barbuti erano monaci-conversi.
Tra il XV e XVI secolo i monaci fecero giungere alle nostre tavole le patate, i fagioli, i tacchini. Fu ancora un monaco ad importare il caffé dall’Africa al Brasile per farlo coltivare intensamente.
“Se avete voglia e tempo, fate una ricerca su dove e quando gli utensili europei sono apparsi oppure sono stati modificati e migliorati: è uno dei tanti metodi per avere sottomano la lista delle mamme della nostra modernità. E abitavano tutte in convento” (Ivi, pag. 35).
Insomma, proseguendo di questo passo, possiamo dire che abbiamo ragione di dirci cattolici perché c’è la Banca Cattolica e abbiamo tante piazze e vie dedicate ai santi, alle madonne…
L’articolo ha quasi il sapore amaro della derisione o, forse, semplicemente vuole dirci a che cosa si riduce il cristianesimo ufficialmente tanto pubblicizzato e diffuso.
Noi non possiamo dirci cristiani per queste ragioni, ma perché vogliamo coinvolgerci davvero sulla strada di Gesù.
Il rischio di un cristianesimo ridotto a folklore, a monumento, a grandi opere, a tradizioni non è da sottovalutare. Temo che questo cristianesimo “senza impegno” sia già per molti una triste realtà.
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