mercoledì 12 settembre 2007

MEDITERRANEO

L’estate, nei Paesi lambiti dal mare e nelle isole cullate nelle sue onde, questa estate di fuoco, ha lasciato mestamente e precocemente il posto ad un autunno più brullo del solito. Il mese di agosto ha bruciato molti paesaggi e molte speranze.

Eppure, senza sosta, su barconi sgangherati e carrette instabili, non solo a Lampedusa e in Sardegna, si ripetono sempre nuovi sbarchi. Quello che trovano sembra più un recinto che un dignitoso centro di accoglienza.

Al 30 agosto gli immigrati sbarcati dall’inizio dell’anno nella sola Sicilia sono stati circa 10.000. Il fenomeno ormai interessa tutta l’Europa, ma il Mar Mediterraneo ne è l’epicentro. E’ cronaca quotidiana.

Quanti ricordi, quanta storia, quante emozioni se ci si affaccia anche solo di sfuggita al “balcone del tempo” e si guarda lontano e vicino. Mediterraneo è un mare tra le terre, le culture, le genti, le fedi.

La “Magna Graecia”, l’Impero, “gli uomini del mare”, e poi il fiorire di grandi civiltà, le intramontabili epiche dell’Iliade e dell’Odissea e mille e mille altre. Sulle sue coste sono nate le tre fedi monoteistiche e sono risuonate e si sono mescolate le lingue più varie.

Mediterraneo è storia di genti, di viaggi, di mercanti, di pescatori, di guerre, di migrazioni. E’ un mare che invita a guardare lontano.

Da anni ci stiamo rendendo conto che il Mediterraneo, un mare relativamente piccolo (ha una superficie di 2 milioni e mezzo di chilometri quadrati e misura 4000 chilometri dalle coste del Vicino Oriente fino allo Stretto di Gibilterra), è farcito di spazzatura galleggiante, soprattutto plastica, impregnato di idrocarburi e altri inquinanti.

I 69 fiumi che confluiscono nel bacino mediterraneo, secondo i dati raccolti da Greenpeace, portano ogni anno 283 chilometri cubi di acqua. Quest’acqua è la fonte più diretta di contaminazione marina perché trasporta ogni sorta di reflui, solidi e liquidi, dalle zone urbane e industriali dell’interno. Spagna, Italia e Francia insieme generano il 60% dell’inquinamento che affluisce nel Mediterraneo.

In media ogni anno, ci documenta l’organizzazione ambientalista Oceano, 12 mila navi solcano il Mediterraneo (circa il 20% del traffico petrolifero) e 400mila tonnellate di idrocarburi sono scaricate in mare. Ben più degli incidenti e delle grandi catastrofi incide il normale inquinamento.

“La prima cosa è sapere che tutto ciò che usiamo sulla terraferma va a finire in mare, e che il problema va affrontato all’inizio della catena dell’inquinamento, non alla fine” (Marina Forti, L’Unità 10 agosto).

Non va sottovalutato che sulle coste mediterranee vivono circa 140 milioni di persone e il turismo porta circa 200 milioni di visitatori ogni anno. Il che rende molto più consistenti l’inquinamento da scarichi urbani e la contaminazione liquida. Ormai le coste sono letteralmente invase da frammenti di plastica, sacchetti, bottiglie, contenitori.

Più recentemente Greenpeace ha raccolto i dati rispetto ai fondali e da essi emerge che il peggio sta proprio sul fondo. In media nei fondali mediterranei si contano 1935 “pezzi” per chilometro quadrato, che è la densità più alta di tutti i fondali oceanici del pianeta. Si potrà forse negare che il Mediterraneo sia il mare più sporco del mondo?

Ma chi potrà mai contare quanti cadaveri queste acque hanno accolto. Il Mediterraneo ormai è diventato una fossa comune di uomini e donne che cercano disperatamente un’altra sponda. Cercano vita e trovano una morte senza sepoltura.

Questo cimitero, senza facili deprecazioni o moralistici sensi di colpa, grida verso di noi, verso questa Europa (e chi se ne sta fuori) che non è in grado di costruire ponti di solidarietà. Ma soprattutto non agisce con sufficiente lungimiranza politica ed economica perché in Africa e non solo in Africa si instaurino dinamiche nuove.

L’Europa è ancora largamente complice di una politica internazionale che ritiene l’Africa un subcontinente di cui interessarsi nelle periodiche emergenze. Questo è il delitto politico che favorisce il cimitero.

Così il “mare nostrum” tradisce la sua vocazione di ponte tra le genti. Per questo motivo ogni seria iniziativa per l’Africa, per dare all’Africa l’opportunità di sviluppare le sue risorse, ha oggi una priorità assoluta in chi vuole contrastare questa tratta dei disperati e questi viaggi della morte. Sulla “coscienza europea” pesano dei gravi ritardi e delle vistose inadempienze.

Non è un caso che recenti indagini abbiano documentato la crescita del razzismo in proporzioni preoccupanti. L’Europa per lo più non ha ancora scoperto l’immigrato come risorsa. Lo utilizza, in molto lavori ormai è insostituibile, ma non lo valorizza.

Non si tratta di semplificare i problemi connessi alla regolamentazione dei flussi o l’esigenza di controllarli al fine di garantire l’ordine pubblico. Ma non è sufficiente preoccuparsi di affrontare un’emergenza dopo l’altra. Occorre far crescere una “coscienza sociale” dell’accoglienza promovendo una politica dei doveri, dei diritti e dell’interculturalità a livello europeo con relativi investimenti.

Anche le chiese cristiane e tutte le religioni avrebbero grandi possibilità di agire sul piano della cultura e dell’ospitalità, ma spesso prevale, fatte le dovute lodevoli eccezioni, il senso di parrocchia, un atteggiamento in cui l’affermazione della propria identità crea distanza e disimpegno oppure un atteggiamento caritatevole, privo di ancoraggio politico e culturale.

E poi perché dimenticare la fantasia e l’iniziativa personale e familiare? Quando cinque anni fa accolsi a casa mia una persona straniera in cerca di speranza e di vita, imparai e imparo tuttora che fare un po’ di spazio ad altri nel nostro “territorio personale” è un’impresa piuttosto impegnativa, ma assolutamente possibile e decisamente normale.

Da quel giorno guardo con maggiore emozione e con diverso coinvolgimento ogni sbarco e ogni naufragio. Mi sembra che la mia cultura dell’accoglienza si è un po’ approfondita e che nel mio egoismo si è aperta qualche breccia.

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