Da “Il Foglio” - mensile di alcuni cristiani torinesi, un periodico culturale di ottimo livello, ho scelto questi due brevi scritti “in memoria”
Il Gandhi musulmano
Il 20 gennaio 2008 sono venti anni dalla morte di un singolare protagonista della nonviolenza, Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan “ (1890-1988), leader di una popolazione guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun, della Frontiera indiana (oggi tra Pakistan e Afghanistan), musulmani che egli educò alla nonviolenza.
Con loro organizzo un “esercito” di 100.000 uomini, detti “servi di Dio” che resistevano senza violenza al duro dominio inglese.
Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che arrivasse l’Islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l’ispirazione alla nonviolenza. La sua figura e azione storica è importante per sfatare l’identificazione odierna tra Islam e violenza.
Questa avvincente storia si legge nel libro di Eknath Easwaran, “Badshah Khan, il Gandhi musulmano”, trad. di Lorenzo Armando, Sonda 1990.
Gandhi osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e dignità è il più disponibile a capire e vivere la “nonviolenza del forte”: “Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare non violento, questa speranza non è vietata ad un uomo violento” (“Antiche come le montagne”, Comunità 1965, p. 168).
“Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno”, disse Khan.
Ghandi
Il 30 gennaio sono 60 anni dall’uccisione di Ghandi. Fu ucciso con una pistola Beretta italiana da un fanatico indù per la sua apertura ecumenica agli indiani musulmani e la sua opposizione alla lacerante divisione della “madre India” tra indù e musulmani (il Pakistan).
Riascoltiamo come seppe morire, preparato da tempo ad offrire tutto sé stesso alla verità: “Prego costantemente di non provare mai nessun sentimento di rabbia verso i miei calunniatori; anche se cadessi vittima del piombo di un assassino, prego di poter rendere l’anima con il nome di Ram sulle labbra".
Quando l’attentatore gli sparò, egli cadde invocando il nome di Dio: “He Ram”. Anni prima aveva detto: “Una persona che ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio ad ogni respiro”, ed egli lo faceva da più di vent’anni, tanto che adesso il nome si ripeteva da sé anche durante il sonno.
“Io sarò contento se, quando qualcuno venisse per uccidermi, potessi restare calmo, lasciarmi uccidere e pregare Dio che mi conceda di avere un buon sentimento per chi mi uccide” (17 luglio 1947).
Il Gandhi musulmano
Il 20 gennaio 2008 sono venti anni dalla morte di un singolare protagonista della nonviolenza, Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan “ (1890-1988), leader di una popolazione guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun, della Frontiera indiana (oggi tra Pakistan e Afghanistan), musulmani che egli educò alla nonviolenza.
Con loro organizzo un “esercito” di 100.000 uomini, detti “servi di Dio” che resistevano senza violenza al duro dominio inglese.
Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che arrivasse l’Islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l’ispirazione alla nonviolenza. La sua figura e azione storica è importante per sfatare l’identificazione odierna tra Islam e violenza.
Questa avvincente storia si legge nel libro di Eknath Easwaran, “Badshah Khan, il Gandhi musulmano”, trad. di Lorenzo Armando, Sonda 1990.
Gandhi osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e dignità è il più disponibile a capire e vivere la “nonviolenza del forte”: “Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare non violento, questa speranza non è vietata ad un uomo violento” (“Antiche come le montagne”, Comunità 1965, p. 168).
“Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno”, disse Khan.
Ghandi
Il 30 gennaio sono 60 anni dall’uccisione di Ghandi. Fu ucciso con una pistola Beretta italiana da un fanatico indù per la sua apertura ecumenica agli indiani musulmani e la sua opposizione alla lacerante divisione della “madre India” tra indù e musulmani (il Pakistan).
Riascoltiamo come seppe morire, preparato da tempo ad offrire tutto sé stesso alla verità: “Prego costantemente di non provare mai nessun sentimento di rabbia verso i miei calunniatori; anche se cadessi vittima del piombo di un assassino, prego di poter rendere l’anima con il nome di Ram sulle labbra".
Quando l’attentatore gli sparò, egli cadde invocando il nome di Dio: “He Ram”. Anni prima aveva detto: “Una persona che ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio ad ogni respiro”, ed egli lo faceva da più di vent’anni, tanto che adesso il nome si ripeteva da sé anche durante il sonno.
“Io sarò contento se, quando qualcuno venisse per uccidermi, potessi restare calmo, lasciarmi uccidere e pregare Dio che mi conceda di avere un buon sentimento per chi mi uccide” (17 luglio 1947).
Nessun commento:
Posta un commento