Commento alla lettura biblica - domenica 13 aprile 2008
"In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perchè conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perchè non conoscono la voce degli estranei". Questa similitudine disse loro Gesù: ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: "In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perchè abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (Giovanni 10, 1-10).
La Bibbia conosce "infiniti" nomi di Dio. Nel tentativo di dare un volto alla Sua presenza e di riconoscere e descrivere la Sua azione e il Suo amore, gli autori biblici cercano, dentro l'esperienza della vita del loro tempo, le immagini e le metafore più espressive.
Una di queste è certamente la figura del pastore amorevole di cui il Primo Testamento ci lascia una preziosa testimonianza.
Se il Salmo ci riporta una accorata invocazione. "Pastore d'Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge" (80,2), è il profeta Ezechiele che, in tempi di corruzione e di sbandamento, mette in luce quale è il posto che Dio vuole occupare nella vita di Israele.
Anzi, nel linguaggio profetico così ricco ed immaginifico, Dio fa la sua auto presentazione, il suo autoritratto:
"Perchè dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia." (Ezechiele 34,11-16).
Non si possono leggere questi lunghi versetti senza collegarli al salmo 23. Sono pagine che ci fanno innamorare di Dio, che ci presentano un Dio accogliente, caldo, amorevole. Tutti i linguaggi e le metafore "pastorali" nella Bibbia si misurano con queste pagine.
Tra autenticità ed equivoci
Oggi parlare di pastori in questa società elettronica e mediatica, costituisce un riferimento ad uno scenario bucolico, agreste di altri tempi.
Se poi uniamo "pastore e gregge", il discorso non diventa solo estraneo per la maggioranza di noi, ma addirittura ambiguo: ci sono troppe persone che vogliono contornarsi di pecore docili ed obbedienti, che sognano una società di "pecoroni" allineati e acritici da governare e manipolare a loro piacere.
Anche certo ritornante parlare di "docili pecore", di "sacri pastori" e di figli devoti della chiesa è un linguaggio caro a chi sogna una comunità ecclesiale tutta ben ordinata e obbediente agli ordini della gerarchia.
Per non cadere in queste gravi ambiguità occorre ricordare che l'immagine del pastore e del gregge avevano ben altro significato, ben altra risonanza negli scritti biblici. Il contesto in cui i primi lettori delle Scritture vivevano, presentava spesso davanti ai loro occhi il passaggio di un gregge amorevolmente guidato da un pastore.
Il pastore era il simbolo della cura: egli conosceva le sue pecore ad una ad una, i loro bisogni, le loro fragilità, il loro "temperamento", il loro passo veloce o zoppicante.
Il pastore affidabile conosceva i pericoli dei sentieri, le insidie del cammino, i percorsi scoscesi e i dirupi; sapeva dove si trovavano le sorgenti d'acqua e dove c'erano zone aride e brulle oppure erbose. Anche la notte il suo cuore e i suoi occhi erano attenti al minimo rumore sospetto. A volte il pastore si era caricato sulle spalle la pecora zoppicante o ferita ...
Un buon pastore aveva, dunque, un bel corredo di qualità, ma soprattutto era un uomo dedito al suo gregge. Lo amava, lo guidava saggiamente verso i pascoli sani e nutrienti e, all'occorrenza, sapeva difenderlo.
Chi sono i pastori?
In Israele, proprio meditando sul simbolo della cura amorevole che la parola "pastore" esprime, vengono chiamati pastori tutti coloro che con amore, tenerezza, disinteresse si prendono a cuore le sorti del popolo, dei più deboli ed indifesi.
Il "modello" è alto; addirittura è Dio. Il pastore buono è chi, in qualche modo, cerca di amare come Dio ama Israele. Gli altri, contro i quali la Bibbia profferisce giudizi severi e scaglia anatemi terribili, sono definiti "cattivi pastori" (vedi Ezechiele 34, 1-10).
Il contesto comunitario
Quando l'ultimo redattore del Vangelo di Giovanni (95-100 dopo Cristo) traccia questa bella icona del nazareno, non ha tanto la preoccupazione di riportarci un "discorso" di Gesù. Egli piuttosto ripropone una densa "meditazione" che nella sua comunità era maturata nel tempo: Gesù era stato davvero un pastore buono, amorevole, che si era preso cura delle pecore deboli.
La comunità di Giovanni pensava a Gesù con questo immaginario affettivo davvero efficace. Siccome già all'interno della comunità c'erano alcuni che cominciavano a farla da padroni, a voler prevalere e "ambivano al primo posto" (3a lettera di Giovanni) dimenticando l'esempio del maestro che si era fatto "servo" di tutti, Giovanni colloca in grande evidenza due passi stupendi. Il primo è la lavanda dei piedi (Giovanni 13) e il secondo è la parabola del buon pastore. Si tratta di due pagine di forte sapore polemico e di genuina correzione fraterna.
Come riportare la comunità e principalmente coloro che in essa svolgono un ministero sulla strada del Vangelo? Come contrastare l'infezione mondana che sta corrompendo la comunità e trasformando il servizio in potere? Come svelare la possibilità, sempre presente in chi esercita una funzione autorevole, di pervertire il suo ministero cadendo nella tentazione del potere e del primeggiare?
Davanti a questi interrogativi, il nostro redattore del Vangelo (che noi chiamiamo Giovanni) individua una risposta, una strada: ripropone a tutta la comunità e a se stesso l'immagine di Gesù buon pastore. Amore, servizio, coerenza sembrano i colori di questa "icona". Questa, e non altra, è la strada che Dio ci indica attraverso la testimonianza di Gesù.
Per Giovanni occorre sempre rifarsi a quel maestro che ha lavato i piedi, a quel pastore amoroso che le folle della Palestina e il gruppo dei discepoli e delle discepole avevano conosciuto ed esperimentato, a quel profeta che annunciava e testimoniava l'amore di Dio verso le Sue creature con gesti e parole di cura.
Questo resta il criterio fondamentale anche per chi riveste una autorità - servizio - ministero nelle nostre comunità, aldilà delle parole che indicano tale funzione.
Le spinge all'aperto...
Non culliamoci nell'immagine piena di poesia e di incanto del pastore che accarezza il suo gregge. Il testo greco dice: "conduce fuori le pecore, le spinge all'aperto e cammina davanti a loro" (v. 3-4).
Così chi si fida del pastore ed esce con lui "troverà pascolo". Qui il pastore non è un uomo di paura, di routine, che vede ovunque il lupo, che predilige il chiuso dell'ovile. E' una figura piena di coraggio e di inventiva: sa che l'erba nutriente ed i pascoli abbondanti sono fuori del recinto ...
Egli non conosce un solo itinerario, sa che ci sono tanti possibili pascoli e li cerca, non prova sgomento e non trasmette angoscia alle pecore di fronte a paesaggi nuovi ed inesplorati o di fronte a sentieri meno conosciuti: mi piace pensare al pastore come ad un uomo che ama i nuovi paesaggi, che cammina con la fiducia nel cuore, un uomo che sorride alla vita, che affronta la fatica, che "dialoga con il gregge".
Oggi, direi, che è buon pastore chi sa ascoltare più che farsi ascoltare, che sa imparare più che insegnare ...
Uscendo di metafora, come non vedere che oggi la nostra chiesa è piena di pastori paurosi, che rinchiudono le pecore nell'ovile ecclesiastico come in una prigione anzichè spingerle fuori ... nelle responsabilità della vita dove si rompono infantili e mortificanti dipendenze?
Quando la smetteremo di chiudere porte e finestre con le persono che vogliono vivere la fede in modo adulto senza rinnegare la vita, con le sue lotte e le sue speranze? Quando capiremo che chi vuole il "recinto" più aperto, più comunicante, più vivo non è un nemico del gregge?
Oggi il più delle volte sono le "pecore" che sanno indicare ai "pastori" dove sono i pascoli verdeggianti.
Senza voler negare alcun ministero prezioso per la comunità cristiana, dobbiamo considerare la possibilità della reciprocità per cui siamo spesso scambievolmente gli uni pastori degli altri/delle altre.
Sono "pastori che aiutano a crescere" coloro che non accentrano nelle loro mani, che non hanno il bisogno di "controllare tutto", coloro che sanno tirarsi indietro quando altri fratelli e sorelle possono subentrare e servire più fecondamente la comunità.
Il pastore non è il proprietario dei pascoli nè il padrone delle pecore. Non è quello che deve autorizzare ogni belato ..., ma lascia che ogni pecora beli in tutta libertà ...
Orrore
Il brano di Giovanni, tra mille perle, registra un frutto avvelenato, una bomba da disinnescare, una polemica che potrebbe fuorviarci. Ripetendo l'inizio del brano, il versetto 8 recita così: "Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati". Messa sulla bocca di Gesù una frase simile stona, anzi fa orrore.
Il grande esegeta e teologo Klaus Wengst nel suo libro "Il Vangelo di Giovanni", (Queriniana), ci aiuta a capire il testo. Si tratta di una polemica interna tra due gruppi giudaici.
La maggioranza con cui Giovanni è in polemica è costituita da coloro che, sotto la guida dei dottori della legge, non riconoscono che Gesù è la porta attraverso la quale Dio viene a Israele (vedi 9,34).
L'affermazione violenta e perentoria è diretta a costoro. Secondo il Vangelo di Giovanni "chi non entra per questa porta, chi pertanto non riconosce che Dio viene al suo popolo in Gesù e attraverso Gesù, ma ha un'altra via di accesso, dimostra con ciò di essere un ladro e un brigante...
Giovanni concepisce perciò soltanto il proprio gruppo come il vero popolo di Dio o come la sua unica rappresentanza adeguata. Questa contrapposizione di una minoranza giudaica a una maggioranza giudaica si trasformerà, nella ricezione non giudaica, in una contrapposizione della chiesa al giudaismo, nella quale la chiesa si concepisce come il "vero Israele"...
La chiesa, se oggi non vuole più affermarsi in questo modo antigiudaico e mettersi al posto di Israele, non rispetterà neppure più Giovanni, secondo il quale i dottori giudaici del suo tempo erano ladri e briganti, bensì rispetterà la loro propria via di accesso" (Ivi, pag. 411).
Ovviamente a quel tempo il cristianesimo non era ancora nato tant'è che qui ci troviamo a fare i conti con una polemica interna tra vari giudaismi. Ma ormai sta profilandosi all'orizzonte una vita da separati in casa.
Da una parte una lettura storica ci aiuta a capire il senso di questa polemica, ma resta il fatto che nei secoli successivi prevarrà una lettura esclusivista che oggi ci fa orrore. Non toglie assolutamente nulla a Gesù e al nostro singolare rapporto con lui poter affermare che prima e dopo di lui Dio ha donato all'umanità tanti buoni pastori. Di questo, sulla strada di Gesù, in consonanza con i suoi pensieri e in aperto dissenso dall'ultimo redattore del Vangelo di Giovanni, noi oggi ci rallegriamo.
Dio è più grande del cristianesimo e ai pascoli del regno di Dio si arriva per tante strade, attraverso tante porte. Sì, dobbiamo uscire da questo pregiudizio del monopolio dell'ovile e del pascolo.
E' proprio Gesù, che si è meravigliato della fede della sirofenicia e del centurione romano, a sollecitarci ad allargare lo sguardo, il cuore e a trasgredire i paletti di una teologia lontana anni luce dal suo messaggio e dal suo stile di vita.
Dio ha preparato pascoli verdeggianti per tutta l'umanità e il Suo ovile è tutto il creato. La nostra mentalità proprietaria ed esclusivista ci fa dimenticare che Dio è più grande del nostro cuore, le Sue vie sono più ampie del nostro sentiero.
"In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perchè conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perchè non conoscono la voce degli estranei". Questa similitudine disse loro Gesù: ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: "In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perchè abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza (Giovanni 10, 1-10).
La Bibbia conosce "infiniti" nomi di Dio. Nel tentativo di dare un volto alla Sua presenza e di riconoscere e descrivere la Sua azione e il Suo amore, gli autori biblici cercano, dentro l'esperienza della vita del loro tempo, le immagini e le metafore più espressive.
Una di queste è certamente la figura del pastore amorevole di cui il Primo Testamento ci lascia una preziosa testimonianza.
Se il Salmo ci riporta una accorata invocazione. "Pastore d'Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge" (80,2), è il profeta Ezechiele che, in tempi di corruzione e di sbandamento, mette in luce quale è il posto che Dio vuole occupare nella vita di Israele.
Anzi, nel linguaggio profetico così ricco ed immaginifico, Dio fa la sua auto presentazione, il suo autoritratto:
"Perchè dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine. Le ritirerò dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d'Israele, nelle valli e in tutte le praterie della regione. Le condurrò in ottime pasture e il loro ovile sarà sui monti alti d'Israele; là riposeranno in un buon ovile e avranno rigogliosi pascoli sui monti d'Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia." (Ezechiele 34,11-16).
Non si possono leggere questi lunghi versetti senza collegarli al salmo 23. Sono pagine che ci fanno innamorare di Dio, che ci presentano un Dio accogliente, caldo, amorevole. Tutti i linguaggi e le metafore "pastorali" nella Bibbia si misurano con queste pagine.
Tra autenticità ed equivoci
Oggi parlare di pastori in questa società elettronica e mediatica, costituisce un riferimento ad uno scenario bucolico, agreste di altri tempi.
Se poi uniamo "pastore e gregge", il discorso non diventa solo estraneo per la maggioranza di noi, ma addirittura ambiguo: ci sono troppe persone che vogliono contornarsi di pecore docili ed obbedienti, che sognano una società di "pecoroni" allineati e acritici da governare e manipolare a loro piacere.
Anche certo ritornante parlare di "docili pecore", di "sacri pastori" e di figli devoti della chiesa è un linguaggio caro a chi sogna una comunità ecclesiale tutta ben ordinata e obbediente agli ordini della gerarchia.
Per non cadere in queste gravi ambiguità occorre ricordare che l'immagine del pastore e del gregge avevano ben altro significato, ben altra risonanza negli scritti biblici. Il contesto in cui i primi lettori delle Scritture vivevano, presentava spesso davanti ai loro occhi il passaggio di un gregge amorevolmente guidato da un pastore.
Il pastore era il simbolo della cura: egli conosceva le sue pecore ad una ad una, i loro bisogni, le loro fragilità, il loro "temperamento", il loro passo veloce o zoppicante.
Il pastore affidabile conosceva i pericoli dei sentieri, le insidie del cammino, i percorsi scoscesi e i dirupi; sapeva dove si trovavano le sorgenti d'acqua e dove c'erano zone aride e brulle oppure erbose. Anche la notte il suo cuore e i suoi occhi erano attenti al minimo rumore sospetto. A volte il pastore si era caricato sulle spalle la pecora zoppicante o ferita ...
Un buon pastore aveva, dunque, un bel corredo di qualità, ma soprattutto era un uomo dedito al suo gregge. Lo amava, lo guidava saggiamente verso i pascoli sani e nutrienti e, all'occorrenza, sapeva difenderlo.
Chi sono i pastori?
In Israele, proprio meditando sul simbolo della cura amorevole che la parola "pastore" esprime, vengono chiamati pastori tutti coloro che con amore, tenerezza, disinteresse si prendono a cuore le sorti del popolo, dei più deboli ed indifesi.
Il "modello" è alto; addirittura è Dio. Il pastore buono è chi, in qualche modo, cerca di amare come Dio ama Israele. Gli altri, contro i quali la Bibbia profferisce giudizi severi e scaglia anatemi terribili, sono definiti "cattivi pastori" (vedi Ezechiele 34, 1-10).
Il contesto comunitario
Quando l'ultimo redattore del Vangelo di Giovanni (95-100 dopo Cristo) traccia questa bella icona del nazareno, non ha tanto la preoccupazione di riportarci un "discorso" di Gesù. Egli piuttosto ripropone una densa "meditazione" che nella sua comunità era maturata nel tempo: Gesù era stato davvero un pastore buono, amorevole, che si era preso cura delle pecore deboli.
La comunità di Giovanni pensava a Gesù con questo immaginario affettivo davvero efficace. Siccome già all'interno della comunità c'erano alcuni che cominciavano a farla da padroni, a voler prevalere e "ambivano al primo posto" (3a lettera di Giovanni) dimenticando l'esempio del maestro che si era fatto "servo" di tutti, Giovanni colloca in grande evidenza due passi stupendi. Il primo è la lavanda dei piedi (Giovanni 13) e il secondo è la parabola del buon pastore. Si tratta di due pagine di forte sapore polemico e di genuina correzione fraterna.
Come riportare la comunità e principalmente coloro che in essa svolgono un ministero sulla strada del Vangelo? Come contrastare l'infezione mondana che sta corrompendo la comunità e trasformando il servizio in potere? Come svelare la possibilità, sempre presente in chi esercita una funzione autorevole, di pervertire il suo ministero cadendo nella tentazione del potere e del primeggiare?
Davanti a questi interrogativi, il nostro redattore del Vangelo (che noi chiamiamo Giovanni) individua una risposta, una strada: ripropone a tutta la comunità e a se stesso l'immagine di Gesù buon pastore. Amore, servizio, coerenza sembrano i colori di questa "icona". Questa, e non altra, è la strada che Dio ci indica attraverso la testimonianza di Gesù.
Per Giovanni occorre sempre rifarsi a quel maestro che ha lavato i piedi, a quel pastore amoroso che le folle della Palestina e il gruppo dei discepoli e delle discepole avevano conosciuto ed esperimentato, a quel profeta che annunciava e testimoniava l'amore di Dio verso le Sue creature con gesti e parole di cura.
Questo resta il criterio fondamentale anche per chi riveste una autorità - servizio - ministero nelle nostre comunità, aldilà delle parole che indicano tale funzione.
Le spinge all'aperto...
Non culliamoci nell'immagine piena di poesia e di incanto del pastore che accarezza il suo gregge. Il testo greco dice: "conduce fuori le pecore, le spinge all'aperto e cammina davanti a loro" (v. 3-4).
Così chi si fida del pastore ed esce con lui "troverà pascolo". Qui il pastore non è un uomo di paura, di routine, che vede ovunque il lupo, che predilige il chiuso dell'ovile. E' una figura piena di coraggio e di inventiva: sa che l'erba nutriente ed i pascoli abbondanti sono fuori del recinto ...
Egli non conosce un solo itinerario, sa che ci sono tanti possibili pascoli e li cerca, non prova sgomento e non trasmette angoscia alle pecore di fronte a paesaggi nuovi ed inesplorati o di fronte a sentieri meno conosciuti: mi piace pensare al pastore come ad un uomo che ama i nuovi paesaggi, che cammina con la fiducia nel cuore, un uomo che sorride alla vita, che affronta la fatica, che "dialoga con il gregge".
Oggi, direi, che è buon pastore chi sa ascoltare più che farsi ascoltare, che sa imparare più che insegnare ...
Uscendo di metafora, come non vedere che oggi la nostra chiesa è piena di pastori paurosi, che rinchiudono le pecore nell'ovile ecclesiastico come in una prigione anzichè spingerle fuori ... nelle responsabilità della vita dove si rompono infantili e mortificanti dipendenze?
Quando la smetteremo di chiudere porte e finestre con le persono che vogliono vivere la fede in modo adulto senza rinnegare la vita, con le sue lotte e le sue speranze? Quando capiremo che chi vuole il "recinto" più aperto, più comunicante, più vivo non è un nemico del gregge?
Oggi il più delle volte sono le "pecore" che sanno indicare ai "pastori" dove sono i pascoli verdeggianti.
Senza voler negare alcun ministero prezioso per la comunità cristiana, dobbiamo considerare la possibilità della reciprocità per cui siamo spesso scambievolmente gli uni pastori degli altri/delle altre.
Sono "pastori che aiutano a crescere" coloro che non accentrano nelle loro mani, che non hanno il bisogno di "controllare tutto", coloro che sanno tirarsi indietro quando altri fratelli e sorelle possono subentrare e servire più fecondamente la comunità.
Il pastore non è il proprietario dei pascoli nè il padrone delle pecore. Non è quello che deve autorizzare ogni belato ..., ma lascia che ogni pecora beli in tutta libertà ...
Orrore
Il brano di Giovanni, tra mille perle, registra un frutto avvelenato, una bomba da disinnescare, una polemica che potrebbe fuorviarci. Ripetendo l'inizio del brano, il versetto 8 recita così: "Tutti quelli che sono venuti prima di me sono ladri e briganti, ma le pecore non li hanno ascoltati". Messa sulla bocca di Gesù una frase simile stona, anzi fa orrore.
Il grande esegeta e teologo Klaus Wengst nel suo libro "Il Vangelo di Giovanni", (Queriniana), ci aiuta a capire il testo. Si tratta di una polemica interna tra due gruppi giudaici.
La maggioranza con cui Giovanni è in polemica è costituita da coloro che, sotto la guida dei dottori della legge, non riconoscono che Gesù è la porta attraverso la quale Dio viene a Israele (vedi 9,34).
L'affermazione violenta e perentoria è diretta a costoro. Secondo il Vangelo di Giovanni "chi non entra per questa porta, chi pertanto non riconosce che Dio viene al suo popolo in Gesù e attraverso Gesù, ma ha un'altra via di accesso, dimostra con ciò di essere un ladro e un brigante...
Giovanni concepisce perciò soltanto il proprio gruppo come il vero popolo di Dio o come la sua unica rappresentanza adeguata. Questa contrapposizione di una minoranza giudaica a una maggioranza giudaica si trasformerà, nella ricezione non giudaica, in una contrapposizione della chiesa al giudaismo, nella quale la chiesa si concepisce come il "vero Israele"...
La chiesa, se oggi non vuole più affermarsi in questo modo antigiudaico e mettersi al posto di Israele, non rispetterà neppure più Giovanni, secondo il quale i dottori giudaici del suo tempo erano ladri e briganti, bensì rispetterà la loro propria via di accesso" (Ivi, pag. 411).
Ovviamente a quel tempo il cristianesimo non era ancora nato tant'è che qui ci troviamo a fare i conti con una polemica interna tra vari giudaismi. Ma ormai sta profilandosi all'orizzonte una vita da separati in casa.
Da una parte una lettura storica ci aiuta a capire il senso di questa polemica, ma resta il fatto che nei secoli successivi prevarrà una lettura esclusivista che oggi ci fa orrore. Non toglie assolutamente nulla a Gesù e al nostro singolare rapporto con lui poter affermare che prima e dopo di lui Dio ha donato all'umanità tanti buoni pastori. Di questo, sulla strada di Gesù, in consonanza con i suoi pensieri e in aperto dissenso dall'ultimo redattore del Vangelo di Giovanni, noi oggi ci rallegriamo.
Dio è più grande del cristianesimo e ai pascoli del regno di Dio si arriva per tante strade, attraverso tante porte. Sì, dobbiamo uscire da questo pregiudizio del monopolio dell'ovile e del pascolo.
E' proprio Gesù, che si è meravigliato della fede della sirofenicia e del centurione romano, a sollecitarci ad allargare lo sguardo, il cuore e a trasgredire i paletti di una teologia lontana anni luce dal suo messaggio e dal suo stile di vita.
Dio ha preparato pascoli verdeggianti per tutta l'umanità e il Suo ovile è tutto il creato. La nostra mentalità proprietaria ed esclusivista ci fa dimenticare che Dio è più grande del nostro cuore, le Sue vie sono più ampie del nostro sentiero.
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