In queste settimane abbiamo letto e riletto analisi e interpretazioni del ’68. Qui vorrei semplicemente accennare al “mio” 68, vissuto in questa piccola e vivace città di provincia, in una altrettanto piccola chiesa locale.
Quando mi buttai “senza risparmio” e senza misura nel fiume del ’68, avevo già alle spalle cinque anni di ministero nel seminario di Pinerolo e nel movimento studentesco della diocesi. Visto ormai negli ambienti della curia come “prete rosso” ed inaffidabile, fui inviato in una parrocchia di periferia.
Il Concilio, che avevo vissuto ad occhi aperti, aveva letteralmente invaso il mio cuore, ossigenandolo e dilatandolo. Avevo creduto, da prete ragazzino, che l’irruzione dei poveri stesse prendendo la guida del carrozzone cattolico. Divoravo giorno e notte ogni scritto che parlasse del Dio liberatore e della chiesa dei poveri. Gauthier, Metz, Milani, Girardi, Kung, Diez Alegria, Bonhoeffer, Cardonnel, Gonzales-Ruiz, Concilium… stavano in buona compagnia con Marcuse, Marx ed Engels negli scaffali della mia biblioteca accanto ad una montagna di commentari biblici.
Avevo curato presso l’Editore Gribaudi un libro di preghiere e una antologia intitolata “La collera dei poveri”. Per me, figlio del Concilio, tanto appassionato quanto ingenuo, il 68 rappresentava la traduzione politica del progetto conciliare. Vedevo in esso un continuum. Percepivo Gesù come il profeta buttafuori dai cenacoli chiusi, che mi invitava a rallegrarmi di ogni finestra che si aprisse verso la giustizia e la solidarietà, ad abbracciare la vita del mondo e nel mondo come spazio primo del regno di Dio. Finalmente il potere andava giù e i poveri andavano su.
Con una certa incoscienza, tra una bronchite e l’altra, mi infilavo in tutte le lotte operaie e studentesche. Il mio mappamondo si popolava di tante luci calamitanti e mi sentivo il cuore in fiamme. Era come se continuassi a spalancare una finestra dopo l’altra: capitalismo, apartheid, colonialismo, immigrazione, nonviolenza, omosessualità, ebraismo, ecumenismo, femminismo, concordato… Che frullato di problemi, di impegni e di speranze… Ed era per me grande gioia trovarmi tra comunisti, agnostici, atei e gente di ogni estrazione animata dallo stesso desiderio di cambiamento.
In questo clima, con tanti amici preti con i quali mi ero messo in contatto vicino e lontano, stavo vivendo, tra mille esitazioni e fragili tentativi, la reinvenzione del ministero. Insieme avvertivamo che era prioritario diventare persone inserite, allora si diceva incarnate, nella comunità umana e cristiana. Non situarci né a lato né sopra. Il ministero diventava soprattutto servizio, accompagnamento, testimonianza, rifiuto dei privilegi clericali. Bastava guardare alla Francia, all’Olanda, all’America Latina, ai preti operai… Ovunque fiorivano esperienze, studi, ricerche davvero coinvolgenti. Anche in Italia giungeva la eco della chiesa dei poveri sia dall’Isolotto che dalle borgate romane… Anche le questioni che il Concilio aveva accantonato e che il papa aveva avocato a sé, come il celibato dei preti, riaffioravano… Su tutte le nuove esperienze e su tutte queste ricerche scattò ben presto la feroce repressione vaticana. Tornava l’ombra dell’Inquisizione.
Mi accorsi con dolore che o restavi un “funzionario funzionale” all’istituzione o ti mettevi su una strada scivolosa e sospettata. L’intercomunione, proposta e vissuta in tanti piccoli momenti ecumenici, veniva rigorosamente proibita, sulla morale sessuale pesavano i soliti tabù, l’amore per una donna rendeva un prete un “giuda”, un traditore… I laici dovevano ritornare nei ranghi della Democrazia Cristiana. La ricerca di nuove vie ministeriali cadeva sotto il sospetto dell’imprudenza quando non veniva giudicata come un attentato all’unità della chiesa. La gerarchia raccomandava prudenza, ma intendeva obbedienza, la prima virtù dei preti. La caccia all’eretico e al disobbediente significava anche per molti di noi una richiesta assai esplicita del sacrificium intellectus.
Potevi farti “apostolo dei poveri”, ma a condizione che il tuo operato servisse ad abbellire il volto di una chiesa sempre più in difesa, sempre più autocentrata, sempre più in cerca di solide alleanze. Il Concilio, ritualmente citato, davvero si allontanava. La teologia della comunione diventava sempre più uno strumento ideologico per creare subordinazione e uniformità… Ritornava in campo la centralità indiscussa ed indiscutibile del potere gerarchico come megafono di Dio. Bisognava, da bravi preti, rilanciare il prodotto dell’azienda cattolica, valorizzarlo, propagandarlo, “produrre” tanti figli devoti della chiesa. Dal “mondo nuovo” verso il quale il 68 aveva aperto sentieri significativi, bisognava prendere le distanze.
Di fronte a questa involuzione prendemmo vie diverse. Non tocca a me giudicare. Io non ho sbattuto nessuna porta, ma non ho accettato di diventare il propagandista del marchio cattolico doc, non ho mai accettato laute offerte di denaro e convenienti proposte di un decoroso e silenzioso pensionamento. Non ho fatto né miracoli né grandi cose, ma un piccolo sentiero l’ho pur trovato, grazie a Dio e ai fratelli e alle sorelle con cui ho cercato di camminare, a partire dalla mia comunità cristiana di base.
Dunque fu in questo gioioso e faticoso travaglio che ben presto percepii l’estraneità, la diffidenza o addirittura l’opposizione della mia chiesa, nelle sue istanze gerarchiche, a questo mondo che stava nascendo. Del resto i “guardiani del sabato” erano già all’opera per spegnere l’incendio conciliare e l’Humane Vitae arrivava come una doccia fredda. Ma nella comunità ecclesiale vissi una ferita più profonda quando mi accorsi che molti miei carissimi amici non tenevano insieme la passione per Dio e la passione per la giustizia: o l’una o l’altra. Per me, già in quegli anni, pregare Dio, appassionarmi alla lettura biblica e lottare per la giustizia erano pratiche inseparabili. L’una rimandava all’altra, l’una alimentava l’altra in una circolarità senza forzature: “Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d’ora innanzi non può più vedere Dio senza il mondo né il mondo senza Dio” (D. Bonhoeffer).
Ora siamo al 2008. Il panorama è davvero mutato, ma non mi sento né un reduce né un nostalgico. Nutrire la nostra fiducia in Dio e lottare per un mondo “altro” ed una chiesa non gregge ma popolo, restano orizzonti ed impegni pieni di attualità. Certo, l’oppressione è più forte di quanto percepissimo allora e la realtà è più complessa, ma il vento soffia ancora e il cuore è sempre caldo. La “rottura”, molto dei problemi che il 68 sollevò, gli orizzonti che aprì e le speranze che suscitò non si potranno accantonare. Continuano ad essere solchi fecondi per vivere intensamente questo oggi e per guardare costruttivamente e attivamente al futuro. Senza illusioni, ma con gioia e passione.
Quando mi buttai “senza risparmio” e senza misura nel fiume del ’68, avevo già alle spalle cinque anni di ministero nel seminario di Pinerolo e nel movimento studentesco della diocesi. Visto ormai negli ambienti della curia come “prete rosso” ed inaffidabile, fui inviato in una parrocchia di periferia.
Il Concilio, che avevo vissuto ad occhi aperti, aveva letteralmente invaso il mio cuore, ossigenandolo e dilatandolo. Avevo creduto, da prete ragazzino, che l’irruzione dei poveri stesse prendendo la guida del carrozzone cattolico. Divoravo giorno e notte ogni scritto che parlasse del Dio liberatore e della chiesa dei poveri. Gauthier, Metz, Milani, Girardi, Kung, Diez Alegria, Bonhoeffer, Cardonnel, Gonzales-Ruiz, Concilium… stavano in buona compagnia con Marcuse, Marx ed Engels negli scaffali della mia biblioteca accanto ad una montagna di commentari biblici.
Avevo curato presso l’Editore Gribaudi un libro di preghiere e una antologia intitolata “La collera dei poveri”. Per me, figlio del Concilio, tanto appassionato quanto ingenuo, il 68 rappresentava la traduzione politica del progetto conciliare. Vedevo in esso un continuum. Percepivo Gesù come il profeta buttafuori dai cenacoli chiusi, che mi invitava a rallegrarmi di ogni finestra che si aprisse verso la giustizia e la solidarietà, ad abbracciare la vita del mondo e nel mondo come spazio primo del regno di Dio. Finalmente il potere andava giù e i poveri andavano su.
Con una certa incoscienza, tra una bronchite e l’altra, mi infilavo in tutte le lotte operaie e studentesche. Il mio mappamondo si popolava di tante luci calamitanti e mi sentivo il cuore in fiamme. Era come se continuassi a spalancare una finestra dopo l’altra: capitalismo, apartheid, colonialismo, immigrazione, nonviolenza, omosessualità, ebraismo, ecumenismo, femminismo, concordato… Che frullato di problemi, di impegni e di speranze… Ed era per me grande gioia trovarmi tra comunisti, agnostici, atei e gente di ogni estrazione animata dallo stesso desiderio di cambiamento.
In questo clima, con tanti amici preti con i quali mi ero messo in contatto vicino e lontano, stavo vivendo, tra mille esitazioni e fragili tentativi, la reinvenzione del ministero. Insieme avvertivamo che era prioritario diventare persone inserite, allora si diceva incarnate, nella comunità umana e cristiana. Non situarci né a lato né sopra. Il ministero diventava soprattutto servizio, accompagnamento, testimonianza, rifiuto dei privilegi clericali. Bastava guardare alla Francia, all’Olanda, all’America Latina, ai preti operai… Ovunque fiorivano esperienze, studi, ricerche davvero coinvolgenti. Anche in Italia giungeva la eco della chiesa dei poveri sia dall’Isolotto che dalle borgate romane… Anche le questioni che il Concilio aveva accantonato e che il papa aveva avocato a sé, come il celibato dei preti, riaffioravano… Su tutte le nuove esperienze e su tutte queste ricerche scattò ben presto la feroce repressione vaticana. Tornava l’ombra dell’Inquisizione.
Mi accorsi con dolore che o restavi un “funzionario funzionale” all’istituzione o ti mettevi su una strada scivolosa e sospettata. L’intercomunione, proposta e vissuta in tanti piccoli momenti ecumenici, veniva rigorosamente proibita, sulla morale sessuale pesavano i soliti tabù, l’amore per una donna rendeva un prete un “giuda”, un traditore… I laici dovevano ritornare nei ranghi della Democrazia Cristiana. La ricerca di nuove vie ministeriali cadeva sotto il sospetto dell’imprudenza quando non veniva giudicata come un attentato all’unità della chiesa. La gerarchia raccomandava prudenza, ma intendeva obbedienza, la prima virtù dei preti. La caccia all’eretico e al disobbediente significava anche per molti di noi una richiesta assai esplicita del sacrificium intellectus.
Potevi farti “apostolo dei poveri”, ma a condizione che il tuo operato servisse ad abbellire il volto di una chiesa sempre più in difesa, sempre più autocentrata, sempre più in cerca di solide alleanze. Il Concilio, ritualmente citato, davvero si allontanava. La teologia della comunione diventava sempre più uno strumento ideologico per creare subordinazione e uniformità… Ritornava in campo la centralità indiscussa ed indiscutibile del potere gerarchico come megafono di Dio. Bisognava, da bravi preti, rilanciare il prodotto dell’azienda cattolica, valorizzarlo, propagandarlo, “produrre” tanti figli devoti della chiesa. Dal “mondo nuovo” verso il quale il 68 aveva aperto sentieri significativi, bisognava prendere le distanze.
Di fronte a questa involuzione prendemmo vie diverse. Non tocca a me giudicare. Io non ho sbattuto nessuna porta, ma non ho accettato di diventare il propagandista del marchio cattolico doc, non ho mai accettato laute offerte di denaro e convenienti proposte di un decoroso e silenzioso pensionamento. Non ho fatto né miracoli né grandi cose, ma un piccolo sentiero l’ho pur trovato, grazie a Dio e ai fratelli e alle sorelle con cui ho cercato di camminare, a partire dalla mia comunità cristiana di base.
Dunque fu in questo gioioso e faticoso travaglio che ben presto percepii l’estraneità, la diffidenza o addirittura l’opposizione della mia chiesa, nelle sue istanze gerarchiche, a questo mondo che stava nascendo. Del resto i “guardiani del sabato” erano già all’opera per spegnere l’incendio conciliare e l’Humane Vitae arrivava come una doccia fredda. Ma nella comunità ecclesiale vissi una ferita più profonda quando mi accorsi che molti miei carissimi amici non tenevano insieme la passione per Dio e la passione per la giustizia: o l’una o l’altra. Per me, già in quegli anni, pregare Dio, appassionarmi alla lettura biblica e lottare per la giustizia erano pratiche inseparabili. L’una rimandava all’altra, l’una alimentava l’altra in una circolarità senza forzature: “Chi guarda Gesù Cristo vede realmente Dio e il mondo con un solo sguardo, e d’ora innanzi non può più vedere Dio senza il mondo né il mondo senza Dio” (D. Bonhoeffer).
Ora siamo al 2008. Il panorama è davvero mutato, ma non mi sento né un reduce né un nostalgico. Nutrire la nostra fiducia in Dio e lottare per un mondo “altro” ed una chiesa non gregge ma popolo, restano orizzonti ed impegni pieni di attualità. Certo, l’oppressione è più forte di quanto percepissimo allora e la realtà è più complessa, ma il vento soffia ancora e il cuore è sempre caldo. La “rottura”, molto dei problemi che il 68 sollevò, gli orizzonti che aprì e le speranze che suscitò non si potranno accantonare. Continuano ad essere solchi fecondi per vivere intensamente questo oggi e per guardare costruttivamente e attivamente al futuro. Senza illusioni, ma con gioia e passione.
(articolo pubblicato su Adista documenti n.46 del 14-06-2008, "1968: ALLA SINISTRA DEL PADRE", www.adistaonline.it)
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