giovedì 21 agosto 2008

IL MINISTERO, NON IL PAPATO

Commento alla lettura biblica - domenica 24 agosto 2008

Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?». Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Matteo 16, 13 – 19).



Oltre una lettura dogmatica


Quante pagine sono state scritte su questo brano del Vangelo di Matteo: intere biblioteche per leggerle in chiave di potere. Che forzatura!!

Mentre “i padri della chiesa e i teologi del medioevo hanno dato poco peso a questo testo di Matteo” (Rinaldo Fabris) negli ultimi secoli si è voluto, con aperte manipolazioni, farne una lettura dogmatica. Si è cercato di far risalire a questa pagina il “primato di Pietro”, questa struttura che si è poi configurata e costruita in modo totalmente difforme dal messaggio di servizio che ha caratterizzato tutto l’insegnamemto di Gesù e tutta la sua esistenza.

“L’ipotesi che il brano di Matteo riproduca il dialogo storico di Gesù – Pietro a Cesarea di Filippo non trova più credito” (R. Fabris). Così pure viene progressivamente abbandonata l’idea che si tratti di un’apparizione post-pasquale di Gesù a Pietro.

Resta sempre più evidente che si tratta di una “costruzione” della comunità di Matteo anche perché Gesù con tutta probabilità non ha mai pensato ad un progetto di chiesa che durasse nei secoli. Anzi, Gesù non ha mai inteso di fondare una chiesa distinta dall’ebraismo. Egli vive e muore da credente ebreo.

Certo la figura di Pietro riveste un’importanza ed una funzione di primo piano nei vangeli. In qualche modo, senza nascondere le sue fragilità e i suoi “tradimenti”, i vangeli ne fanno un modello di discepolo, un testimone straordinario delle origini cristiane. Il suo rapporto con Gesù deve essere stato singolarmente intenso e profondo e la sua testimonianza di vita ha lasciato tracce profonde nelle prime generazioni cristiane e quindi negli scritti del Secondo Testamento.


Riflessioni storiche ed esegetiche

Proviamo a ricostruire la storia di questa pagina e di questa “promessa” fatta a Pietro sulla scorta di molti studi recenti.


“Dobbiamo partire dalla convinzione molto diffusa, che il vangelo di Matteo sia stato composto in Siria negli anni 80 del primo secolo d. C. La Siria a quel tempo confinava con la Palestina e comprendeva anche quello che ora è il Libano. Nella città di Antiochia, situata nella pianura che separava la Siria dall’Asia Minore, avevano trovato rifugio i cristiani fuggiti da Gerusalemme in occasione della persecuzione menzionata in Atti 8, 1. Si era formata una fiorente comunità alla quale avevano aderito, accanto ai credenti di origine giudaica, anche dei convertiti dal paganesimo (Atti 11, 20ss.). Fu ad Antiochia che i discepoli vennero chiamati per la prima volta “cristiani” (Atti 11, 26).

Alcuni anni più avanti, la comunità cristiana di Antiochia fu teatro di una frattura tra elementi aperti all’evangelizzazione dei pagani e alla piena fraternità con questi convertiti, ed elementi di origine giudaica che non consideravano possibile la partecipazione di tutti alle agapi cristiane per timore che i cristiani provenienti dal Giudaismo fossero esposti a mangiare cibi vietati dalle leggi cerimoniali d’Israele.


Per evitare questa conseguenza si offrivano due possibilità: o l’imposizione delle leggi cerimonali ebraiche a convertiti dal paganesimo, o la separazione della comunità al momento dell’agape fraterna. Tutt’e due le soluzioni parvero intollerabili a Paolo, che protestò energicamente con Pietro che si era ritirato dalle agapi comuni, e con quelli che lo avevano imitato, tra i quali era anche Barnaba che pure era stato protettore di Paolo e suo compagno nel primo viaggio missionario.

La protesta di Paolo non era fatta soltanto in nome della fraternità, ma anche in nome dei principi: la giustificazione del peccatore, l’esperienza dello Spirito Santo, la vita vengono dalla predicazione dell’evangelo e dalla fede in Gesù Cristo, oppure dalla opere della legge (Galati 2, 16-3, 14)? Se si divide sulle questioni di osservanze rituali, o le impone alla parte non-ebraica dei suo membri, la comunità è ancora una comunità fondata unicamente sull’opera e sulla persona di Cristo, oppure mettendogli accanto un altro principio declassa di fatto il Cristo a elemento secondario della sua fede?


L’origine siriana (forse proprio antiochena) del vangelo di Matteo potrebbe fornire una ipotesi ragionevole per ricostruire lo sfondo sul quale si sarebbe formata e trasmessa la tradizione petrina, che poi è stata incorporata in Matteo 16, 17-19. Quando Pietro lasciò Gerusalemme (Atti 12, 17) e la direzione della comunità cristiana di Gerusalemme passò a Giacomo, fratello del Signore (cfr. Atti 15, 13ss.; 21, 18ss.; Galati 2, 9.12), probabilmente si trasferì ad Antiochia. Il bisogno di appoggiare la sua autorità potrebbe essere stato particolarmente forte in quella città, proprio perché lì Pietro era stato così severamente criticato da Paolo.

Da queste considerazioni storiche si può pensare che Matteo abbia interpretato il «legare e sciogliere» di Pietro nel senso dottrinale. Ad Antiochia c'erano due tesi opposte a confronto: da un lato c'erano gli emissari di Giacomo (che fossero mandati da lui o che si servissero del suo nome per dare prestigio alle loro pretese non ha importanza in questo momento), dall'altra c'era Paolo che rappresentava gli interessi dei convertiti dal paganesimo.

«Quelli di Giacomo» (Galati 2, 12). dicevano: «Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15, 1). Paolo diceva: «Noi sappiamo che Dio salva l'uomo non perché questi osserva le pratiche della legge di Mosè, ma perché crede in Gesù Cristo. E noi abbiamo creduto in Gesù Cristo per essere salvati da Dio per mezzo della fede in Cristo... Nessuno infatti sarà salvato per mezzo delle opere comandate dalla legge» (Galati 2, 16 TILC).

Pietro, che in un primo momento cedette alle pressioni o ai ricatti di «quelli di Giacomo», in realtà sembra essere stato più vicino alla posizione di apertura e di libertà sostenuta da Paolo; potrebbe quindi avere assunto una funzione mediatrice tra le due parti, appunto quella di «sciogliere e legare», cioè di dire quali elementi della Legge biblica erano vincolanti e quali no nella comunità di Gesù Cristo. A lui (o al ricordo del suo insegnamento) potrebbe essere stato tributato quel riconoscimento specialmente dopo la partenza e la fine dell'attività di Giacomo e di Paolo (Paolo fu arrestato a Gerusalemme nel 57 o nel 58 per essere poi processato e ucciso a Roma pochi anni dopo, e Giacomo fu ucciso a Gerusalemme nel 62).


Il vangelo di Matteo, scritto in Siria una ventina d'anni dopo, sembra rispecchiare la tendenza di Pietro a una via di mezzo fra Giacomo e Paolo, quando attribuisce a Gesù l'affermazione di non essere venuto per abolire la Legge e i profeti (5, 17), però fa anche dire a Gesù «Voi avete udito che fu detto... Ma io vi dico...» (5, 21.27.31.33.38.43). «Sciogliere e legare» significherebbe appunto dire che cosa è confermato e che cosa è abolito nella Legge.

Attribuendo a Pietro questa posizione nella chiesa di Siria, il vangelo di Matteo non ne faceva un papa. Una figura papale è incompatibile con il modo in cui Matteo parla della chiesa e dell'insegnamento nella chiesa. Basti pensare che l'autorità di «legare e sciogliere» Matteo l'attribuisce, in 18, 18 a tutta la comunità! Oppure pensare al radicalismo con cui Matteo, al cap. 23, 8-11 contesta l'autorità dottrinale, il magistero dottrinale di singoli nella chiesa. Anche la scelta della parola greca ekklesìa acquista un rilievo inaspettato da queste considerazioni: Matteo non usa nè la terminologia giudaica (avrebbe detto synagoghé) nè la terminologia dei culti misterici greci (avrebbe detto thìasos, o éranos, o koinòn).

Invece sceglie un termine politico: quello dell'assemblea democratica della polis greca. Con questa scelta Matteo poteva significare tre cose: (a) la «mondanità» del cristianesimo, cioè la sua volontà di inserimento nel mondo (quindi di non isolarsi dal mondo ritirandosi nei deserti); (b) la diversità del cristianesimo dalle istituzioni religiose di qualsiasi specie; (c) la decisa opposizione a un tipo di magistero dottrinale nella chiesa, sul tipo di quello degli scribi ebrei sulle sinagoghe di quel tempo -ricordiamo che dopo la caduta di Gerusalemme, 70 d.C., le sinagoghe sono dominate dai Farisei che il vangelo di Matteo combatte aspramente"
(BRUNO CORSANI, I testi evangelici sulla remissione dei peccati
in: Oltre la confessione, cdb Pinerolo, 1988).



Il papato come struttura mondana


L’insieme di queste considerazioni riveste particolare attualità e urgenza oggi in un constesto in cui la figura papale, ingigantita da tutti i video del mondo ed enfatizzata dai viaggi, è quasi l’unica voce della chiesa. Questo pontificato, che ha espresso al massimo livello la dimensione del potere e che ha cercato in ogni modo il consenso delle masse e le mediazioni politiche e diplomatiche, ha evidenziato la totale estraneità al vangelo di questo castello mondano privo di qualunque connessione con il messagio delle Scritture.

Il papato è soprattutto una spettacolarizzazione dell’istituzione ecclesiastica, del Vaticano, della curia romana. Dovunque il papa va, vengono preparati scenari, riprese, palchi, troni: tutto è spettacolare. La sua stessa figura sofferente viene usata per creare emozioni che, unite allo spettacolo, esercitano un forte impatto sugli spettatori o sugli ascoltatori televisivi.

In questo delirio di folla, applaudito e sostenuto da tutti i poteri politici che lo sentono ormai loro consanguineo, il papato forse – per dono di Dio – comincia una fase di declino. Non una parola profetica da quel trono, ma fiumi di retorica, repressioni continue, dichiarazioni moralistiche di pentimento per gli sbagli passati senza alcuna vera conversione nell’oggi.

Tutto questo può essere vissuto come l’occasione propizia per un ripensamento, ma può anche perpetuare una istituzione che, tutto sommato, è scandalosa solo più per moltissimi credenti, ma è molto comoda per i potenti e per certe istituzioni che utilizzano per i loro scopi manipolatori una bella foto con il papa, un baciamano vaticano come “cartolina” di buona presentazione.

È noto come il dittatore del Cile, Pinochet, si fece vanto e fece ovunque bella mostra della sua fotografia con il papa e della comunione ricevuta dalla mani di Wojtyla. Ma un papato guida infallibile che indichi la via della verità contro la via dell’errore rappresenta una forte tentazione anche per quei credenti che, anzichè scegliere il rischio di una ricerca e di una fede responsabile, preferiscono superare le loro insicurezze obbedendo ad una “autorità” che non vogliono assolutamente desacralizzare.

Il papato è così diventato uo dei maggiori mali della chiesa, uno degli ostacoli più ingombranti nel camino ecumenico.

Pietro, discepolo appassonato

Ma proviamo a guardare in profondità, con fiducia.

Pietro, liberato dai panni papali che gli hanno messo addosso, è una figura di discepolo che non si può dimenticare. La sua fede, semplice ed audace, ha fatto di questo povero pescatore della Galilea un testimone strarodinariamente vivo del Vangelo. Le scritture ce lo presentano come un uomo fragile, che giunge a tradire, che merita l’appellativo di “Satana” da Gesù ma nello stesso tempo evidenziano il suo amore per Gesù, la sua capacità di convertirsi, la sua disponibilità a mettersi in gioco fin dai primi giorni della predicazione a Gerusalemme…

Laciamo cadere il castello di carta del papato che gli hanno messo sulle spalle: accogliamo la sua preziosa testimonianza di discepolo appassionato.

Va da sé che le Scritture non ci permettono di pensare ad un “successore di Pietro” (pura e semplice invenzione di chi vuole leggere la figura di Pietro in chiave di potere e vuole ereditarne le prerogative), ma è pur vero che un ministero di accoglienza, di conciliazione, di esortazione all’amore e alla convivialità delle differenze potrebbe rappresentare un dono per le chiese.

Superare il papato per instaurare un ministero di unità in forme di servizio può essere una prospettiva telogica e pastorale per la quale lavorare. Infatti non si tratta, a mio avviso, di destrutturare la chiesa, ma di riscoprire e ricreare uno stile di servizio e strutture di servizio in cui uomini e donne, possono esercitare un ministero di animazione evangelica.

Del papato si può fare a meno, ma la chiesa non può fare a meno del ministero pastorale e dei vari ministeri. Abbiamo più che mai bisogno di donne e di uomini che dedichino la loro vita alla predicazione del Vangelo in spirito di gioioso e umile servizio.

Chi continua più che mai ad amare la chiesa di Gesù e a lavorare per una conversione che coinvolga persone e strutture, chi constata che lo stesso papa è prigioniero del papato e non può uscirne senza demolire la sua prigione dorata, ha imparato a vivere la sua fede senza dare peso alcuno al papato. Ma non possiamo dimenticare che esiste ancora il rischio che l’onnipresente figura e presentazione di un cristianesimo papalino e papalatrico nasconda a molti uomini e molte donne la possibilità di vedere che esistono altri modi di essere cristiani.

Esiste, dunque, un campo di lavoro immenso in cui seminare i germi del cambiamento, della liberazione dal dominio di strutture sacrali e di immaginari paralizzanti. Buttiamoci con fiducia in quest’opera di dialogo, di confronto, di dibattito ben consapevoli che, chi sorveglia dall’altro dei troni, non ci manderà il telegramma d’auguri.

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