Noi dobbiamo imparare ad amare la vita e a coglierne la luce non perché attanagliati dalla paura della morte, ma perché accesi dalla passione per la stessa esistenza. Se infatti il quotidiano può diventare il luogo della solitudine, del rimpianto, della delusione, esso può essere anche il luogo delle relazioni, il luogo dell'incontro, della festa
della possibilità di "fare casa".
Che cosa significa "fare casa"? significa non subire il quotidiano, ma esserne protagonista: sono io che, nei gesti della cura (nel preparare il cibo, nell'accudire, nel lavoro che giornalmente svolgo) do valore al tempo presente che vivo, do senso alle cose che faccio, introducendo bagliori di vita nell'oscurità dell'esistenza, nell'apparente inutilità del gesto quotidiano. Certo il tempo che ogni giorno vivo non è "eccezionale", ma è il tempo nel quale posso tessere rapporti di comunione, di dialogo, di familiarità, di amore. Ed è il "mio" tempo, l'unico.
D'altra parte lo stesso Gesù non aveva forse numerosi e frequenti gesti di quotidianità? Non "faceva casa" con chiunque incrociava il suo cammino? lo incontriamo, infatti, nelle case e nelle strade a mangiare e bere con discepoli e amici, a offrire gesti di tenerezza, di accoglienza a tutti, donne e uomini. Egli fa proprio l'invito del Quelet: "Mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto". E i discepoli di Emmaus non lo hanno forse riconosciuto dai gesti del quotidiano?
Adriana Valerio, teologa e docente di storia del cristianesimo all'università Federico II di Napoli
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