lunedì 20 luglio 2009

iPUBBLICO QUESTA BELLA TESTIMONIANZA DI UMANITA' E DI FEDE

TESTIMONI: Don Sandro Artioli

In tonaca con la tuta blu

 

Con questo nuovo inserto, Job Zone si propone di attivare un ulteriore canale di comunicazione nel quale dare spazio a testimoni significativi e peculiari per la loro esperienza maturata nel mondo del lavoro. La prima che proponiamo è quella di un prete-operaio, don Sandro Artioli. Attraverso il senso profondo che ha dato  a questa scelta ed esperienza, vissuta radicalmente “nella stiva dell’umanità”, mettendosi fianco a fianco, carne e spirito, per condividere appieno la condizioni di  fatica e le preoccupazioni degli uomini e delle donne nelle fabbriche, questa testimonianza ci è apparsa emblematica e pregnante per lanciare questo primo numero.

 

L’incontro è avvenuto nella serata del 5 giugno scorso presso  il “rifugio-laboratorio” di don Sandro, affacciato su una delle vie vicino alla ferrovia di Sesto San Giovanni, accompagnati da don Raffaello Ciccone, suo amico di vecchia data.

 

 

“Molte volte mi hanno rimproverato di lasciarmi troppo prendere dai problemi drammatici della terra. E che invece dovrei dedicarmi di più a pensare al cielo. Non è vero che, siccome la terra fa schifo, dedicarsi a guardare il cielo è il vero segno di conversione a Dio” (don Sandro   Artioli)

 

“Cosi l’intendeva anche quel tale che durante una manifestazione mi disse.<Lei reverendo vada a dir Messa . Pensi a pregare e basta>. Quel tale non sapeva che dalla Messa e dalla preghiera io vengo fuori più indignato, piu’ “arrabbiato”, più impegnato di prima nella lotta contro le oppressioni e le ingiustizie.”don Cesare Sommariva

 

“Non andai in fabbrica perchè gli operai erano una classe, ma perchè erano i poveri. Mi dava fastidio l’idea che un prete potesse vivere “con” loro, pensavo che dovesse vivere “come” loro”. (don Carlo Carlevaris)

 

Un cenno sulla storia del movimento dei preti-operai.

L’origine del movimento dei preti-operai è legata all’esperienza francese. Il termine fu usato nel 1941, durante la massiccia deportazione di lavoratori francesi in Germania. In quella circostanza numerosi sacerdoti e giovani seminaristi divennero operai per poter dare assistenza religiosa agli esuli. Ma è nel 1943, con la pubblicazione di una ricerca realizzata da due preti (Y. Daniel e H. Godin) intitolata “Francia, paese di missione?”, in cui si metteva in luce la frattura che si era creata fra la Chiesa e le masse popolari delle periferie, e che la figura del prete-operaio assume una valenza apostolica-sociale.  Sarà infatti l’allora arcivescovo di Parigi, cardinale Emmanuel Suhard, che fondando la “Missione di Parigi”, darà un vero impulso a tutto ciò, con il progetto di una equipe di preti, che, liberati da ogni impegno ministeriale tradizionale, verranno consacrarsi totalmente all’evangelizzazione degli ambienti popolari di Parigi. E’ così che questi preti, in piena libertà, cominciarono a vivere con gli operai, nelle periferie e nelle fabbriche. Nel dopoguerra l’esperienza dei preti-operai si estese in breve tempo a numerose altre diocesi. Le discussioni intorno alla loro figura si fece allora appassionata, e si intensificò anche il loro coinvolgimento nelle lotte proletarie per la dignità dei lavoratori e per i diritti sindacali. Quell’esperienza, cosi innovativa e profetica, trovò grandi resistenze e preoccupazione in  Vaticano da parte di  Papa Pio XII,  tanto che nel 1953 fu ordinato ai preti-operai di abbandonare la loro condizione di lavoratori “in ragione dei gravissimi danni, per la stessa fede e per lo spirito di disciplina ecclesiale  e religiosa” a cui essi potevano essere esposti. Si disse che la vita operaia doveva essere vietata “per incompatibilità con la vita  e gli obblighi sacerdotali”. Per l’Italia, invece, non è possibile indicare un avvenimento determinante che segni l’inizio dell’esperienza dei preti operai, possiamo però ricordare, nel 1950, il primo prete operaio italiano: don Bruno Borghi di  Firenze, amico di don Lorenzo Milani. Anche se in maniera poco visibile, il fermento dell’esperienza francese del dopoguerra aveva lavorato anche da noi,  tanto da essere in grado di riaffiorare con vitalità  durante, e dopo, il Concilio Vaticano II. Bisognerà infatti aspettare 1965, il vento nuovo del Concilio, le sue aperture profetiche, per riaprire grandi speranze. Il superamento della concezione di Chiesa di fronte al mondo, e il passaggio ad una Chiesa nel mondo, farà si che la missione dei preti-operai poté riprendere. Dopo questa data, i preti-operai si diffusero, oltre che in Francia, in Belgio, in Italia, in Spagna, in Germania, in Austria, in Svizzera, e in America latina.

(Nel 1993 i preti operai erano 580 in Francia – 110 in Italia – 80 in Spagna – 37 in Belgio – 15 nei paesi di lingua tedesca). Per alcuni di questi paesi il percorso si sviluppò con una certa facilità, ad esempio in alcuni paesi dell’America latina (anche sulla spinta della Teologia della Liberazione) o in Francia, per una loro attitudine storica. Nel nostro paese, invece, la Chiesa non comprese pienamente l’importanza e il potenziale dell’esperienza dei preti-operai: l’Italia era considerata “un paese di forte e robusta presenza cattolica”, pertanto non si sentiva la necessità di una evangelizzazione del mondo del lavoro. Invece cominciate queste esperienze, possiamo affermare che si verificò una “contaminazione al contrario”, nel senso che fu proprio l’incontro con il mondo del lavoro a “fare aprire gli occhi” alla Chiesa su quanto lì dentro accadeva. Quella che sembrava inizialmente una scelta missionaria della Chiesa, si era rivelata un’inaspettata spinta alla riforma interna per elaborare e sperimentare una spiritualità adatta alla società moderna. Germinavano nuove istanze: i preti-operai incrociarono e parteciparono alle vicende delle comunità di base, alla contestazione ecclesiale, alla denuncia dell’alienazione nella produzione capitalista, all’avvicinamento dei cristiani al socialismo, all’impegno pacifista, contro il colonialismo, all’obbiezione di coscienza al servizio militare, rappresentando spesso una presenza problematica all’interno della Chiesa, per molti versi ancora non risolta.

 

Il racconto

Sediamo attorno al tavolo posto nel locale di ingresso, inerte testimone di passate e rumorose discussioni fra compagni di lavoro (anche 20 partecipanti in contemporanea), e dopo avere fatto la nostra  presentazione con i motivi che ci hanno portato lì, inizia il racconto.

<<Sono nato a Milano il 29 luglio 1942, da una famiglia di origini mantovane che poi si è trasferita a Milano; e qui ci vivono anche le mie due sorelle con i loro 5 figli e nipoti, che alla domenica quando posso vado a trovare>>.

I segnali precoci di una scelta di vita in qualche modo “radicale” si manifestano in Sandro su un tema in quinta elementare dal titolo “Cosa farai da grande” dove scrive 

<<… fin da piccolo volevo fare il  prete per andare dai bambini poveri in Cina, India, Africa, e abitare nelle capanne con loro o in una roccia che mi scavo io, non nelle ricche cattedrali. Così all’età della prima media vado in seminario e li ero uno dei migliori allievi>>.

Da queste premesse e con i successivi anni di scuola e seminario che si palesa in modo più evidente con contrasti non certo superficiali con i superiori, la sfasatura fra quanto gli veniva proposto per forma e contenuti con quanto lui sentiva nel profondo del cuore e con la mente.

<<Prima di arrivare al sacerdozio, dopo il terzo anno di teologia, mi sento la voglia di fare una pausa di vita proletaria>>, siamo negli anni ’60, e cominciano a diffondersi anche in Italia le esperienze dei preti-operai, che hanno già trovato spazio in Francia, e proprio lì don Sandro decide di cominciare questo suo personale percorso.

<<Mi trasferisco in Francia a Saint Priest, vicino a Lione e comincio a lavorare in fabbrica, una fabbrica tessile. Il padrone era bestiale, così mi misi al fianco delle delegate aziendali. Un Natale vidi quel padrone in prima fila in chiesa. Fece la comunione. Alla fine della messa andai dal parroco e chiesi se sapeva chi era quel personaggio. E lui mi rispose “un buon cattolico ma un pessimo cristiano”>>.

<<Dalla Francia riprendo contatto con il mio vescovo e gli scrivo che sono disposto a riprendere il mio percorso di ordinazione per poi fare il prete-operaio perché mi sentivo preso a svolgere il mio ruolo di vivendo in basso e condividendo la pesante vita operaia. Mi viene dato il consenso, ma prima dovrò stare in parrocchia per qualche anno>>.

<<Ritorno dalla Francia, e preparo il IV anno di teologia da solo e dando gli esami. Nel settembre del 1967 vengo ordinato prete, seppure non compaio sugli annuali delle ordinazioni sacerdotali: non mi ci hanno messo.>>

Sono quelli anni difficili per le parrocchie, soprattutto quelle della periferia di Milano, siamo nel pieno dell’immigrazione e dello sviluppo caotico della città e dei suoi quartieri dormitori:

<<Vengo assegnato in una parrocchia di Quarto Oggiaro, uno dei quartieri più devastati e ci sono rimasto per 8 anni. In quegli anni mi attivo con la cittadinanza per promuovere un’azione sociale, mentre con tutti i preti che volevano fare l’esperienza operaia, ci incontravamo, facevamo riunioni e parlavamo di questa opportunità. Ma loro non hanno avuto il consenso a fare questa esperienza; io invece si>>.

A don Sandro si accendono gli occhi mentre parla, come se le cose che dice stessero accadendo proprio in quel momento.

<<Nel settembre del 1975, all’età di 33 anni sono entrato in Breda Termomeccanica, come carpentiere-saldatore, la mansione più dura e massacrante. Passavo ore dentro contenitori di acciaio a saldare a filo o cannello, operazioni che avevo imparato sul campo, senza nessun addestramento; ogni tre ore circa di saldatura, ci si prendeva una boccata d’aria, che in realtà trascorrevo fumando una sigaretta>>.

Ricordiamo che questa azienda produceva dapprima carrozze e locomotori per la Metropolitana Milanese, e dal 1973 le Partecipazioni Statali che ne sono proprietari decidono il passaggio alla produzione di componenti nucleari.

Non vi sarà sfuggito il fatto che don Sandro entra in fabbrica all’età in cui, nostro Signore moriva in croce; il nesso non è per nulla casuale.

<<Pochi fra i miei compagni di lavoro sapevano che ero prete, non volevo potesse diventare un sorta di privilegio>>.

La radicalità con cui vuole vivere il messaggio cristiano è palese anche in fabbrica; di fronte a diverse offerte da parte dell’azienda di cambiare mansione, il rifiuto è fermo: 

<<voglio essere ultimo fra gli ultimi>> . 

Dopo un anno di lavoro, di fronte al disastro che vede nel reparto, accetta di essere eletto come delegato, sotto la spinta dei compagni di lavoro.

E nelle scelte di don Sandro, non c’è mediazione che tenga, si fa promotore e partecipa attivamente alla nascita del sindacato di base autoorganizzato Slai-Cobas in Breda, perché

<<ero considerato un leader dai compagni di lavoro, perché li difendevo e criticavo l’azienda; ho creato collegamenti con altre fabbriche. Mentre con i sindacati confederali non ho mai avuto un buon rapporto, loro erano più funzionali al capitale che all’uomo, io invece facevo lavoro di base>>. 

Come non ricordare a questo punto don Milani (mentre stiamo abbozzando questo numero ricorre l’anniversario della sua morte, il 26 giugno) quando affermava che nella vita, per stare dalla parte dei poveri, si possono fare tre mestieri: il prete, il sindacalista o il maestro:

<<e io ho fatto il prete operaio e il sindacalista>>.

<<Ho fatto sei cause di lavoro contro l’azienda. Quando mettevano personale in cassa integrazione io c’ero sempre nell’elenco. Allora fuori della fabbrica, mettevo cartelli e facevo volantinaggio. Con un amico collega, ci alternavamo a seconda che fossimo dentro o fuori dalla fabbrica>>.

In questa esperienza umana così profonda, di contatto continuo con colleghi e compagni di lavoro, viene messa a prova anche la sfera degli affetti e delle emozioni che nascono proprio da relazioni intense e vere, al punto di lasciarsi sfiorare dall’idea di mettere su famiglia

<< Quando tornavo a casa alla sera massacrato dal lavoro, mia madre mi diceva che almeno gli altri operai tornando a casa trovavano la moglie e i figli, e questa possibilità mi aveva tentato, ma poi ho rinunciato>>.

La pesantezza delle condizioni di lavoro e le scarse tutele in materia di sicurezza sono un elemento ricorrente nel racconto di don Sandro:

<<In 27 anni di lavoro operaio ho subito cinque infortuni, alcuni anche abbastanza gravi, che mi hanno fiaccato fisicamente, e in più, lavorando esposto all’amianto, a seguito di esami clinici mi hanno trovato delle placche sulla pleure polmonare; ma avevo Gesù dalla mia parte, e sono sempre andato avanti, con tenacia. Su 5500 lavoratori che sono stati sottoposti a controlli medici, a 150 di loro è stato riscontrato un tumore>>.

Gli anni trascorrono velocemente e anche quella esperienza di lavoro finisce

<<Sono andato in pensione a 60 anni nel 2002 con 36 anni di contributi e poco più, oltre ad avere avuto il riconoscimento di una pensione di invalidità da lavoro. Da circa tre anni sento fortemente condizionato nel mio fare da uno stato patologico che mi porta come effetti il ricordare poco ciò che le persone dicono e a dimenticare con facilità i loro nomi; faccio anche molta fatica a leggere articoli e ad interpretare frasi e concetti, soprattutto se sono densi di significati come quelli che scrive l’amico Raffaello>>.

<<Oggi non c’è più nessuno che fa il prete operaio, dopo gli anni ’60 nessuno a più voluto fare questo percorso; oggi quelli che lo hanno fatto sono tutti in pensione. Nella mia fabbrica sono rimaste solo sette persone che conosco, tanti altri sono morti>>.

A questo punto don Raffaello propone una chiave di lettura che è anche sintesi rispetto alla esperienza dei preti-operai: “La fatica a cui ha sempre fatto riferimento don Sandro non è un bene anzi, non la faceva per prenderci gusto, ma per sostituirsi agli altri e mettersi alla loro pari.  Il prete-operaio non era un masochista, piuttosto una persona a cui interessava stare con gli ultimi; c’era una dignità fra di loro che doveva essere riconosciuta, che è proprio il motivo che ha portato don Sandro e altri a fare i preti-operai”.

 

Siamo giunti al termine dell’incontro, don Sandro ci invita a visitare il suo rifugio: la stanza con il suo computer, una pila di libri, e su una porta ci imbattiamo in un manifesto con l’immagine di Che Guevara, segno per un testimone che richiama il suo affetto e vicinanza ai paesi latino-americani che ha avuto modo di visitare.

Dietro l’anta di un armadio: la Bibbia, il Vangelo, la Stola, per dir Messa la domenica assieme ai suoi pochi compagni rimasti, uniti nel nome del Signore in quel “laboratorio-chiesa” della sua casa.

Decidiamo di fare due passi,mangiare un gelato in una vicina gelateria prima del commiato. Al ritorno, lui sulla porta ci saluta con il volto sorridente, dal quale traspare una serenità interiore nonostante tutto, e ci invita a tenere i contatti.

Mentre torniamo a Cernusco, ripensiamo al nostro interlocutore, e non possiamo fare a meno di rilevare un senso di solitudine umana che accompagna chi ha scelto di donarsi completamente nella testimonianza cristiana in forma così radicale come quella fatta da don Sandro. Una solitudine, che ha inizio nel momento in cui fa una scelta fuori dal comune pensare, e poi quella successiva alla sua testimonianza, pagando fisicamente i risvolti di una vita condotta sempre in prima linea. Sia ben chiaro, una vita vissuta con intensità per gli altri, i più deboli.

 

A don Sandro, un grazie da parte della redazione di Job Zone.

Per chi volesse entrare in contatto con don Sandro segnaliamo il suo indirizzo e-mail:

sandrart@fastwebnet.it