Riporto qui un redazionale di “Il Gallo” di Genova (casella postale 1242 – 16121 Genova) che ritengo straordinariamente lucido e significativo.
Come mai il cristianesimo e la Chiesa non intercettano la domanda religiosa di oggi che invece viene raccolta da altre espressioni religiose? Le ragioni naturalmente sono più di una, ma il linguaggio ci sembra essenziale perché la fede ha bisogno di essere consapevole di se stessa e di dirsi con un linguaggio parlante all’umanità contemporanea.
La Chiesa, oggi, sembra parlare molto spesso più il linguaggio della istituzione che non quello della profezia. Si enfatizzano le regole, i divieti, i distinguo, l’asserita necessità di rendersi visibile e presenti nello spazio pubblico e, nella percezione di coloro che sono più distanti o che fanno maggiormente fatica, la nostra Chiesa appare soprattutto un luogo giuridico e politico. Si avverte un senso generalizzato di sfiducia e di smarrimento. La domanda di Pietro al Maestro: “Signore, da chi andremo?”, risuona ancora, seppur sommessamente e talora in modo confuso, nei crocicchi delle strade. Ma come Chiesa facciamo difficoltà a raccoglierla e a tradurla in un cammino di speranza.
Occorre dunque una duplice critica, sia al linguaggio tradizionale della fede che ormai non ci parla più sia a quello immanentista della nostra società e della nostra cultura che in nome della legittima autonomia dell’umano si chiude in se stessa. C’è anche da aggiungere che complessivamente la società opulenta fa fatica ad affidarsi a Qualcuno, quando si sta bene si rimane adagiati nel proprio benessere, lo sguardo non va oltre.
Si tratta di unire il cielo con la terra senza svilire né il cielo, né la terra, di poggiare su uno sguardo positivo, sull’apprezzamento delle cose del mondo e, senza fare dell’ottimismo di facciata, sulla lieta valutazione dell’impegno dell’uomo per trasformare la terra, che rimand a quelle “nuova terra abitata dalla giustizia” di cui parla Pietro nella sua lettera, giustizia che non a caso è uno dei grandi valori e bisogni del mondo odierno. Da un lato apprezzare la terra e la fatica dell’uomo e dall’altro presentare Dio all’interno dello sforzo umano di liberazione. Non è esterno, non è sovrapposto, non è aggiunto, Dio è alla radice che spinge verso l’avanti, un Dio liberatore e di libertà come ci ha testimoniato Gesù: libera dal culto, dalla tradizione religiosa, dalle convenzioni sociali, dalla rigidità della legge, libera togliendo forti incrostazioni interiori che non permettono alle energie positive, alla speranza che albeggia in noi di potersi esprimere.
C’è una fiducia effettiva di questo Dio con noi, non ci illude, sa che siamo peccatori, peccatori perdonati e quindi al centro dell’Evangelo c’è il lieto annuncio di un Dio che segue passo passo la nostra vita. L’uomo non è solo, abbandonato a se stesso in questo mondo difficile e complesso. Dio è già qui, a differenza del Dio dei cieli, non va cercato chissà dove, va cercato nell’oggi, nel profondo della propria coscienza e nella realtà che ci circonda. Non soltanto allora, come si faceva nella tradizione, denunciare i limiti della società in cui si vive, le carenze dell’umano, ma puntare anche e forse ancora di più sul positivo.
A volte c’è una pienezza vissuta o intuita che trasborda, va al di là delle immediate possibilità, del nostro codice umano e ci sorprende. Questo senso di pienezza potrebbe esser segno di una presenza alta, altra, di un Presenza attiva che opera dentro di noi e vuole condurre l’uomo alla pienezza della vita. Come diceva il grande teologo Karl Rahner, la Chiesa del terzo millennio dovrà essere una Chiesa mistica. È tempo di raccogliere questo invito e fare nostra questa profezia.
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