martedì 30 agosto 2011

RÈGIS DEBRAY: TERZA PARTE

– Nel tempo della globalizzazione e delle unioni sovranazionali, lei difende un’idea della frontiera controcorrente: che cosa vede di positivo nelle frontiere? «A priori, la frontiera è ciò che è antipatico, è ciò che resiste... Ma è qualcosa di ambiguo. Ho constatato che ci sono sempre più frontiere mentre se ne parla di meno. 26. 000 km di frontiere si sono create dagli anni 80 in poi e ce ne sono altri 23. 000 in costruzione. È vero che siccome gli imperi sono scoppiati, ci sono sempre più Stati territoriali e quindi sempre più frontiere. Ma che senso dare a questo moltiplicarsi di frontiere politiche, territoriali, al tempo della globalizzazione tecnico-economica? Secondo punto, si dice: la frontiera è la guerra, è il fronte. D’accordo ma la frontiera è anche la pace, cioè il riconoscimento dell’altro. L’ho scoperto nel Medio Oriente dove sono andato un po’ a zonzo: laddove non ci sono frontiere ci sono muri. La frontiera è il vaccino contro il muro perché la frontiera è il riconoscimento dell’altro, cioè la legittimità che ci sia un altro e che tu non sei dappertutto a casa tua. Infine, la frontiera protegge il debole. Prenda il diritto d’asilo: se non ci sono più frontiere, che cosa se ne fa? Una fatwa potrebbe essere eseguibile ovunque. In altri termini, la frontiera è anche una ospitalità. Il forte non ama le frontiere. Il forte vorrebbe poter andare dappertutto ma in realtà che cosa ha? Un territorio in cui si rintana. È a casa sua e bisogna ammettere che anche gli altri hanno diritto a una casa loro. Dunque per me, la frontiera è una cortesia, un segno di civiltà».

– Come la «fraternità» può essere fermento di pace?

«La fraternità non è la fratrìa, non è il legame del sangue. È il legame del senso. Se legge la Bibbia, osserva che la fratrìa finisce sempre molto male: Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli. La fraternità consiste nel fare una famiglia con coloro che non sono della propria famiglia. È fare un “noi” non generico ma simbolico, non fondato sull’eredità ma sulla volontà. L’immenso merito che riconosco al cristianesimo è di avere permesso la rottura con il “noi” etnico, clanico o famigliare per instaurare il “noi” di San Paolo, un “noi in Cristo”, a seguito del Cristo del resto, e dei famosi “famiglia vi odio” della sua predicazione! È un rottura di civiltà capitale di cui occorre vedere il lato un po’ sovversivo. È il passaggio dalla legge di natura alla legge della grazia. Esso consiste nell’uscire da quel “noi” ereditario per trovare una comunità volontaria». (Ripreso da Protestinfo).