mercoledì 28 dicembre 2011

CHIESA, APRITI


Dieci "preti di frontiera" del Nordest: «Chiesa, apri



 a donne e sacerdoti sposati»



Alla messa di Natale celebrata nell'atrio della stazione di Padova una lettera per chiedere il superamento del celibato, labbandono dei titoli e «la libertà da tutti i vincoli con il potere». Tra i firmatari anche il padovano Albino Bizzotto

 

PADOVA. l'atrio della stazione ferroviaria, pur capace, non basta ad accogliere i fedeli. Giovani, giovanissimi, coppie, famiglie: alle 22 si celebra la messa notturna di Natale, fra display pubblicitari e annunci sonori dei treni in arrivo. Presto però il coro e le chitarre hanno ragione dei rumori fuori scena. Il via vai continua ma diventa uno sfondo. Sul palco, ad officiare, una rappresentanza deipreti di frontiera del Nordest

Dieci parroci, da sempre a contatto con gli emarginati e spesso balzati alle cronache per posizioni eterodosse rispetto al Magistero. Sono Albino Bizzotto (Padova),Pierluigi Di Piazza (Udine, Franco Saccavini (Udine), Mario Vatta (Trieste), Giacomo Tolot (Pordenone), Piergiorgio Rigolo (Pordenone), Alberto De Nadai (Gorizia), Andrea Bellavite (Gorizia), Luigi Fontanot (Gorizia) e Antonio Santini (Vicenza). La Lettera di Natale che hanno sottoscritto chiede una Chiesa «che apra le porte alle donne prete e ai preti sposati»; una Chiesa «povera, senza titoli nobiliari, senza paludamenti e libera dai vincoli di potere»; una Chiesa «che paghi le tasse e chieda perdono agli omosessuali e alle vittime di pedofilia»; una Chiesa più democratica, «luogo di perdono che accolga tutti».

Non sono ribelli ostili, i preti di frontiera. E rivendicano, anzi, l'appartenenza alla comunità ecclesiale. Che vorrebbero diversa, però. Più in sintonia con l'annuncio del Vangelo, più vicina agli ultimi. «La nostra lettera è ispirata al Concilio Vaticano II», spiegherà don Di Piazza «l'abbiamo scritta per comunicare ciò che le persone comunicano a noi, un modo per mantenere vive le sollecitazioni e continuare il dialogo».

Quest'anno il messaggio è incentrato sulla Chiesa «cui siamo profondamente grati», si legge «ed è questa gratitudine che ci sostiene nel considerare le ombre e i tradimenti al Vangelo. Quando la Chiesa riceve potere perde la forza di denunciare l'illegalità, l'ingiustizia, l'immoralità, il razzismo, come avviene nella nostra Regione a livello politico e legislativo».

Parole come pietre, senza enfasi, tuttavia. Quasi la naturale conseguenza di un cammino cristiano che ha come interlocutori privilegiati coloro che meno hanno e meno contano. Così, nell'omelia, la parola corre subito «ai fatti di Firenze e di Torino», l'assassinio degli ambulanti senegalesi e la caccia selvaggia ai rom, lampi di orrore per i quali viene chiesto perdono. Poi l'odissea degli immigrati, i rifugiati in attesa di asilo, i nati in Italia ancora privati («Crudele ingiustizia») dei diritti di cittadinanza. Rimbalzano temi di attualità, dal ripensamento dell'ora di religione (che dovrebbe diventare «studio del fenomeno religioso») al nodo dei cappellani militari («Perché resta l'incompatibilità tra Vangelo e armi»).

Ma anche la congiuntura sociale e il rapporto Chiesa-politica: «Una Chiesa che tace di fronte alle tragedie del mondo è lontana anni luce da Gesù. La crisi attuale è etica e culturale prima che economica. I cristiani devono impegnarsi per un mondo nuovo, ma non è pensabile un partito di cattolici». La folla dei fedeli annuisce, scambia pensieri, si stringe ai celebranti. Adulti di colore e ragazzine con piumino e piercing, madri di famiglia. E quando una giovane coppia alza sull'altare Ginevra, neonata in fasce, l'applauso scroscia liberatorio.

27 dicembre 2011