mercoledì 24 aprile 2013

DUEMILA TELEFONATE AL MESE PER CHIEDERE AIUTO

 

Il volto martoriato  pubblicato su Facebook di Wilfred de Buijin , gay aggredito per strada a Parigi dopo una cena con amici, ha fatto il giro del web . Gli attacchi omofobici in Francia di recente si sono triplicati raggiungendo il top durante la discussione della legge sulle nozze gay. A istigare la violenza il gruppo di estrema destra Gud.  Ma l’omofobia non è solo volti insanguinati. In Italia serpeggia nella società e nell’immaginario. A contrastarla un pericoloso vuoto di leggi e pochissimi progetti.

La Rai ha persino tergiversato sulla messa in onda dello spot del ministero delle pari opportunità che per livellare le “differenze” equipara l’essere alto o mancino all’orientamento omosessuale. Efficace? “Certo quando sei alto è difficile fare coming out con i tuoi…”, è uno dei tanti commenti ironici su Fb. Cosa racconti in famiglia, in classe, in ospedale, sul lavoro quando sei lesbica o gay? È questo il tema. La piaga è l’omofobia sociale, capillare, dannosa. Quella che rischi di portarti addosso per tutta la vita. C’è una realtà che i media tacciono, interessati a parlare  solo di nozze gay, violenze, celebrazioni. Ad accreditare  l’immagine degli omosessuali militanti, trionfanti, o aggrediti solo per un raptus. Come se non fosse di moda parlare di disagio quotidiano, mentre l’omofobia sembra più digeribile se camuffata da violenza episodica.

Cala il silenzio sui tanti ragazzi che a scuola sono omofobi e se ne vantano, sui genitori che cacciano di casa i figli gay, sulla lesbica “velata” – prof, infermiera, psicanalista, dirigente, madre di famiglia. Sono i racconti che arrivano alla Gay help line 800713713 (www.gayhelpline.it) : duemila telefonate al mese per il 70 per cento di uomini (dati relativi al trimestre aprile-giugno 2012), 1.328.228   visite al sito web, 10.496 richieste di consulenza. Le domande riguardano per il 42 per cento il sostegno psicologico, per il 33 quello medico, per il 25 l’assistenza legale, riferisce Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center cui è legato il servizio.  Chi telefona parla di svelamenti, di coppia, di solitudine.

“Ci sono i ragazzi che hanno paura di fare coming out, pur essendo figli di genitori che poi la prendono bene. Quelli, invece,  a cui è stato risposto   con un rifiuto oppure con i soliti “vedrai sarà una fase” o “ti porto da uno psicologo”. C’è chi resta all’interno di una coppia per il timore di perdere l’unico contatto con  il mondo gay. C’è l’uomo anziano che chiama per dire di essere solo, laddove le lesbiche in età telefonano raramente”, racconta Angela Infante,  counselor, presidente Gay Center e responsabile dei progetti di formazione.

Notevole il peso dei ruoli di genere nelle questioni d’amore. “Le donne si rivolgono alla Gay help line per problemi di coppia e tendono ad avere comportamenti assillanti, mentre è difficile che un uomo chiami per dire che il compagno  lo ha tradito”. C’è poi la sofferenza  cocente di essere abbandonata dalla partner che non tollera il peso della “trasgressione”. “Tra le telefonate quella di una donna lasciata dalla compagna dopo 15 anni di rapporto a causa delle pressioni messe in atto dalla famiglia di origine, in poco tempo la ex-partner si è sposata e ha avuto un figlio sconfessando  il passato”.

Tanti i dubbi sulla identità: “Molti uomini sposati che hanno relazioni con uomini chiedono: sono gay o etero? ”. C’è poi chi cerca nella città il necessario anonimato: dal Sud o dalle province del Nord chiedono come fare a vivere a Roma dove puoi passare inosservato. Ci sono le segnalazioni di comportamenti sessuali non graditi, la confusione tra travestitismo e omosessualità. E ancora: “Chiamano anche le mamme, vogliono informazioni sui comportamenti a rischio. Oppure chiedono: se mia figlia si veste da maschio diventerà lesbica?”. Delicato il compito di chi risponde.

“Uno dei momenti più duri: quando chi telefona ha lo stesso problema dell’operatore. In questi casi può essere difficile restare centrati – conclude Angela Infante -. Gli operatori devono fornire l’ascolto empatico che dà la possibilità a chi telefona di fare chiarezza dentro di sé. Tutti i mesi ci incontriamo: chiedo loro quali telefonate sono state più problematiche. Condividiamo le difficoltà, li stimolo a fare le domande giuste”. Un lavoro di ascolto permanente. Uno slalom tra negazioni di sé, ferite, maschere. Il termometro dell’omofobia? “Tanti dicono: non chiamo per me, ma per un amico”. Delia Vaccarello-L'Unità 17 aprile