domenica 5 gennaio 2014

LA LETTERA


Caro Franco,
mi chiamo Luca, ho trent'anni, sono il nipote di Maria Franca Bonanni. Noi forse non ci siamo mai presentati, anche se ci siamo incrociati al funerale di mio zio Mario, il compagno di Franca. Allora ero piccolo, avevo suppergiù dieci anni. Mia zia mi ha parlato molto di lei e della comunità . Mi è capitato anche di leggere e seguire alcuni suoi interventi su internet in particolare sul tema dell'omosessualità e del concilio Vaticano II. Da molto tempo desideravo scriverle per comunicarle il mio interesse per le sue idee e la grande stima e ammirazione per le lotte che conduce. Anche se non ci conosciamo sento di potermi aprire con lei e volevo sottoporle alcune mie riflessioni sul percorso che ha portato ad allontanarmi dalla fede cattolica alla quale ero stato educato e ad abbracciare una posizione che viene in genere definita – ma io rifiuto questa etichetta – come quella di un "non credente". In questo percorso sono certo stato facilitato dai miei genitori, i quali pur battezzandomi e inviandomi a catechismo, non mi hanno mai imposto nulla ma al contrario hanno sempre cercato di aiutarmi a pensare con la mia testa.
Fin da ragazzino ho sviluppato una certa propensione per la ricerca razionale che ho spesso sentito in contrasto con la fede, con qualsiasi tipo di fede religiosa. Mi ricordo ancora quando in uno degli incontri prima della cresima misi in discussione di fronte al prete il creazionismo sostenendo che – come insegna il pensiero scientifico – in natura nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma e che scienza e religione andavano separate. Allora non avevo certo letto Bonhoeffer, ma già a quell'età mi dava fastidio usare Dio come una sorta di tappabuchi della nostra conoscenza. Se crediamo in Dio perché ci sentiamo amati da lui non abbiamo certo bisogno di immaginarci un Dio che crea il mondo, poco importa se in sei giorni o in seimila anni o in un nanosecondo. Specialmente da adolescente – all'età di diciotto-diciannove anni – Dio per me era, più che un Creatore o un'Essenza, una Possibilità, la possibilità che il mondo non fosse, per così dire, solo quello che avevamo squadernato di fronte a noi. Aggiungo che a quell'età il mondo mi appariva, sin troppo pessimisticamente, come un continuo affastellarsi di guerre, stragi, sfruttamento dell'uomo, miseria, indifferenza verso l'altro, superstizione… Ci era stata promessa la pace dopo la fine della "guerra fredda" e il più feroce conflitto dopo il 1945 in Europa si svolgeva dall'altra parte dell'Adriatico, con l'avallo e la complicità, prima velata e poi manifesta, delle potenze "occidentali". Ci era stata promessa un'Europa "sociale", in grado di contemperare il cosiddetto libero mercato con l'allargamento dei diritti civili politici e sociali e invece aumentavano lavori precari, sfruttamento a tutti i livelli, imbarbarimento della vita politica… E la Chiesa – che si proclama Chiesa della fratellanza e dell'amore – si limitava a qualche platonico appello per la pace e la giustizia, badando soprattutto al proprio tornaconto economico, al controllo del "gregge" attraverso culti superstiziosi (le varie Madonne che piangono sangue, i Padre Pio…) e a difendere l' "identità cristiana" dell'Italia e dell'Europa continuando a discriminare le persone sulla base delle loro inclinazioni sessuali e delle loro scelte di vita. Io stesso mi sentivo a volte persino complice di questi misfatti nella misura in cui non mi vedevo in grado di lottare contro di essi. Ricordo che in certi giorni il mio disgusto arrivava a tal punto che immaginavo che l'umanità intera – me compreso, naturalmente! – potesse perire per causa di un virus, come in certi film di fantascienza tipo "L'esercito delle dodici scimmie" di Terry Gilliam. Mi sentivo, per così dire, scisso tra un mondo che non mi piaceva per nulla e un Dio che mi sforzavo di sentire come radicalmente Altro da questo mondo ma che mi appariva ogni giorno più lontano, evanescente, in-credibile.
Negli anni dell'università e poi del dottorato, che ho concluso da un anno, la mia visione del mondo è cambiata anche grazie alle esperienze che ho fatto, agli incontri con nuovi amici e, diciamolo pure, agli ormoni che si sono un po' stabilizzati! Ad avermi aiutato è stata anche la passione per la storia, la materia che ho studiato all'università. Vedere come gli essere umani hanno modificato, a volte lentamente a volte in modo anche radicale, le loro condizioni materiali di vita, le loro istituzioni, i loro costumi, le loro idee mi è di enorme conforto. Meglio ancora: è la prova che le cose sono in continuo mutamento e che quindi l'unica vera utopia è quella di chi non vuole cambiare mai o pretende, gattopardescamente, che qualcosa cambi perché nulla nella sostanza muti. Panta rei diceva Eraclito. La storia dimostra che è così, che gli esseri umani non sono condannati alla ripetizione, all'autorità dell'eterno ieri, ma possono e vogliono cambiare; che liberté, égalité, fraternité non sono qualcosa di dato (un dono, come pensano le religioni) ma di conquistato, e di una conquista tanto più preziosa quanto più essa si rivela sempre incompleta e sempre revocabile. Non soltanto: la disciplina storica insegna anche a comprendere gli altri, o meglio a distinguere comprensione da giustificazione (se il nazismo è esistito bisogna capire come si è sviluppato ma senza che questo comporti la minima giustificazione perché la storia non è deterministicamente data o utopisticamente prevedibile), e a fare distinzione tra le persone e le istituzioni. Molti ritengono che per cambiare le istituzioni bisogna iniziare dalle persone. Io ho imparato dalla storia che il percorso è esattamente contrario: inizia a mutare leggi, istituzioni e condizioni materiali in cui le persone si formano, e allora anche le persone cambieranno. Forse ricorderà una delle scene finali del film Novecento di Bertolucci, in cui il partigiano-contadino Olmo (Depardieu) durante il processo che viene intentato al suo amico-nemico ed ex-padrone, il possidente Alfio Berlinghieri (De Niro), convince i compagni a risparmiarlo perché solo se Alfio vive il padrone Berlinghieri (ossia l'istituzione padronale) può realmente morire. Questo a me ha insegnato la storia! Non è, dopotutto, un insegnamento molto cristiano?
Purtroppo la storia viene spesso insegnata male, dando l'impressione di qualcosa di vecchio e di bolso. Gramsci, scrivendo al figlioletto Delio mentre era in carcere e informandosi sui suoi studi scolastici gli domanda: "io penso che la storia ti piacerà come piaceva a me quando avevo la tua età perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può che piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così?". Per molti purtroppo oggi non è affatto così, ma questo non dipende né dagli esseri umani, né dalla storia o dagli storici (anche se tra gli storici accademici vi sono, a mio modesto parere, non pochi affossatori di buona storiografia, per non parlare degli storici-giornalisti oggi à la page tipo Pansa…) ma dalla situazione politica attuale in cui prosperano, specie nel cosiddetto Occidente (ma meno, mi pare, in altri posti come l'America Latina o l'Asia), le ideologie della conservazione e della "fine della storia".
Mi rendo conto di aver divagato un po' ma se ho fatto questa digressione sulla storia è perché lo studio di questa disciplina e la riconsiderazione in termini assai più positivi e anche pro-positivi dell'umanità che essa mi ha arrecato credo sia stato un fattore non secondario nel determinare il mio allontanamento non solo dal cattolicesimo (con il quale di fatto avevo rotto i ponti già da adolescente) ma da qualsiasi tipo di fede religiosa. Spesso si sente fare questa distinzione tra credenti e non credenti (così come in tempi neppure troppo remoti vi era quella tra fedeli e infedeli). Ora io non amo molto etichettarmi (le etichette sono buone per i barattoli di marmellata e non per gli esseri umani, possono servire come indicazione ma non vanno utilizzate senza prima capire bene su chi o cosa le si sta appiccicando). In particolare mi infastidisce questa definizione di non-credente o di ateo, non solo perché non mi piace definirmi per via negativa o privativa ma perché una tale definizione non coglie affatto il senso del mio pensiero o meglio della mia attitudine nei confronti del mondo (e mi pare che ciò si possa dire anche per altri "non-credenti" che conosco). Io non soltanto non credo in Dio o in qualche suo surrogato superomistico o ideologico. E' l'atteggiamento stesso del credere che mi è divenuto, col tempo, estraneo e persino antipatico, indipendentemente da cosa si crede (se a Dio, a un'Ideologia, al Caso o in qualcosa d'altro). Nella misura in cui io analizzo, studio, agisco insieme agli altri in un mondo che non sento più come totalmente estraneo od ostile, non sento neppure alcuna propensione o bisogno ad immaginarmi un Mondo altro (Dio) o a "mitizzare" una figura come Gesù, sulla cui esistenza storica sappiamo tra l'altro molto poco, facendone una sorta di campione o di modello di bontà e amore.
Se ci fa caso oggi il verbo "credere" viene ripetuto con monotonia ossessionante: il governo afferma che bisogna credere che i sacrifici iniqui servano alla "ripresa", i calciatori spesso dopo una partita vittoriosa affermano in conferenza stampa che hanno vinto perché "ci hanno creduto" (come se bastasse credere alla vittoria per ottenerla…) sino alle varie testimonianze di fede presentate dai servizi televisivi di persone che guariscono perché – si insinua con tono mellifluo – hanno "creduto" in Madonne piangenti sangue et similia. Durante il Ventennio, del resto, "credere obbedire combattere" era tra gli slogan preferiti (laddove la credenza veniva legata alla cieca obbedienza e al servilismo).
Ora naturalmente io mi guarderei bene dall'accomunare gli esempi che ho fatto alla credenza in Dio che lei, mia zia e tante altre persone coltivano. Tuttavia, la conclusione cui sono arrivato – e la prego di perdonarmi se quello che sto per affermare le sembrerà un po' duro – è che una qualsiasi credenza porti con sé i germi di qualcosa di pericoloso, di torbido, e persino di potenzialmente soffocatore della libertà propria e dunque anche degli altri. Quante volte il credere è stato e continua ad essere instrumentum regni, strumento per governare le masse!
E vi è un'altra ragione, forse ancora più decisiva, che mi spinge sempre più lontano da qualsiasi credenza religiosa. Io non sono specializzato in latino (mi sono addottorato in storia contemporanea), ma se non sbaglio il termine religione deriva etimologicamente da relegere (ripercorrere) o, secondo altri, da re-ligare (unirsi attraverso dei legami). Nel primo caso si accentua l'importanza di una tradizione che si è costretti a ripetere (il passato che la storia mi ha insegnato a comprendere ma anche a non giustificare e quindi a mutare). Nel secondo, indica un legame tra gli uomini e tra essi e Dio. Nella misura in cui si tratta di legarsi agli dei greci e romani – immortali e in grado di condizionare il comportamento umano (in quanto dei) ma volubili e non onnipotenti (in quanto antropomorfizzati) – si tratta di un legame che un "illuminista" antico, sia pure quanto mai problematico, come Lucrezio definiva in termini negativi. Nella misura in cui ci si lega a un Dio che è sì Onnipotente ma che è primariamente Amore si tratta di un legame per nulla… costrittivo!, anche perché se Dio è Amore e ha generato l'Uomo della sua stessa sostanza come atto d'amore, anche tra gli uomini vi sarà lo stesso tipo di legame amoroso (e, per inciso, se la Natura è opera sua tale legame si estende anche a tutto ciò che vi è nell'universo).
Questo è ciò che mi piaceva all'età di diciotto-venti anni del cristianesimo e che mi piace tuttora! Ma il punto è: quale delle religioni "tradizionali" è in grado ancora di legare in questo modo gli uomini? E soprattutto: la credenza in un qualche Dio a fondamento di tutte le religioni non è una base, per così dire, troppo fragile per sostenere questo tipo di legame tra gli uomini? Perché legare la giustizia verso gli altri (che è nostro dovere) e l'amore verso gli altri (che è in nostro potere), due cose che noi possiamo praticare solo vivendo e conoscendo noi stessi e gli altri, ad una credenza che le religioni non fanno altro che circonfondere da un alone di Mistero? Come si concilia l'intellegibilità della Giustizia e dell'Amore all'inintellegibilità del Mistero della Fede?
Per questo io mi vado sempre più convincendo che ciò che gli esseri umani dovrebbero sviluppare (e in parte lo stanno già facendo, anche se naturalmente in maniera spesso tanto contraddittoria!) è una religione laica, fondata su principi razionali, intellegibili a tutti, capace di unire e non di dividere come fanno le religioni tradizionali (che laddove hanno unito i popoli – spesso con la forza delle armi o comunque della coercizione – li hanno al tempo stesso divisi in modo irrimediabile). Il riferimento le sembrerà forse alquanto frivolo, ma pensi ad Imagine di Lennon, quando invoca un mondo in cui tutti possono vivere come una cosa sola, tutti unici e differenti proprio perché le differenze assolute che unificano per dividere (proprietà, confini, ma anche… religioni) spariscono.
Naturalmente io sono ben consapevole dell'eredità storica delle religioni del passato e non penso, come certo illuminismo un po' ingenuo (pre-hegeliano e pre-marxista) che si possa, per così dire, rovesciare tutto dall'oggi al domani. Sono cosciente – ça va sans dire ma è sempre bene ribadirlo – che l'abbandono non solo delle religioni tradizionali ma dell'atteggiamento stesso del "credere" non deve e non può in alcun caso essere imposto, ma che può soltanto essere cercato, come è stato per me. Sono altrettanto consapevole del fatto che una tale ricerca è favorita in uno stato laico piuttosto che in uno stato "religioso" (confessionale o ateistico che sia) ed è per questo che io mi sento di appoggiarla con tutto me stesso nella sua lotta per la laicità dell'Italia e mi rallegro del fatto che tanti "credenti" oggi si rendano conto dell'importanza di questa battaglia.
Tuttavia, il rispetto perinde ac cadaver per le idee degli altri (à la Voltaire: io darei la vita perché tu possa esprimere la tua opinione anche se differente dalla mia, a condizione che tu rispetti a tua volta la mia) non penso che mi esima dal battermi anche per un mondo senza credenze religiose o meglio, come dicevo prima, per una religione razionale (laddove la Ragione non va intesa, come si fa un po' a scuola, come contrapposta a Sentimento, Pulsione ecc.; una ragione… umana e quindi soggetta a limiti anche psicofisici, non divinizzata come tendeva a fare certo illuminismo) fondata su principi di giustizia e su una pratica di simpatia e compassione che gli esseri umani apprendano da loro stessi, senza aver bisogno di legarla ad un dono… divino. Una religione non credente, insomma, ma raziocinante. Non teoretica, ma pratica, in cui anche quel nucleo di teoresi astorico e antirazionale che si fonda sulla credenza in Dio venga abolito.
Mi si potrebbe opporre che questa mia visione non tiene conto dell'intimità delle persone, di ciò che è insondabile in esse e quindi anche di quel Dio che abita la loro interiorità e che esiste anche se io non lo riconosco. Devo premettere che, forse proprio per una certa timidezza del mio carattere, io ho spesso sognato di essere… trasparente nei confronti degli altri, di poter far comprendere i miei pensieri senza bisogno della mediazione delle parole (un po' come afferma Seneca in una delle lettere a Lucillo). Questo continuo insistere – specie negli ultimi due secoli – sul dualismo esteriorità/interiorità dell'uomo mi sembra, però, sempre più artificioso, sospetto, tipico di una società in cui alla necessità della vita esteriore (dominata dalla pretesa onnipotenza delle "leggi del mercato") si contrappone, come consolazione, la presunta libertà di una vita interiore nella quale vi può anche essere posto per… Dio (mentre il mondo là fuori è dominato dalle ferree leggi del Capitale).
Le confesserò – e qui la prego con tutto il cuore di perdonarmi se le apparirò un po'… insolente – che proprio questa "interiorizzazione" di Dio (magari concepita anche come fondamento di comportamenti "esteriori" improntati alla giustizia e all'amore) mi appare a volte come l'elemento più fragile di un certo cristianesimo "progressivo" e "laico". Se si deve ammettere – per giustizia nei confronti dei "non credenti" – che a fondamento della società non può esservi Dio (a differenza di quanto affermato da Ratzinger), si lascia a Dio la possibilità di abitare un'Interiorità insondabile ("io credo in Dio ma non pretendo che tu mi comprenda in questo mio credere"). In questa visione "progressista" del cristianesimo mi pare che tanto si è disposti – in nome della laicità – ad espellere Dio dal mondo esteriore, cioè a non vederlo più come una garanzia per la conoscenza del mondo o per la formulazione dell'etica, quanto si è portati ad ingigantire l' "interiorità" e a farne il campo privilegiato del credere in Dio (o meglio, come mi sento spesso dire da alcuni amici credenti, del nostro "ricevere Dio che ci parla").
Ma – le chiedo – accettare questo dualismo non significa, in fin dei conti, fare di Dio un fattore di scissione interna del credente, che sarebbe "esteriormente" affratellato a tutti gli altri (perché non fa della sua credenza una discriminante dal punto di vista etico o scientifico e su queste materie segue l'etsi Deus non daretur) ma "interiormente" isolato (in quanto relega la sua Fede al campo – preteso inaccessibile –  dell'interiorità)? Non è questo anche un escamotage con il quale il credente "laico" si mette al riparo da qualsiasi critica alla religione (e storicamente, difatti, le critiche più efficaci alla religione, da Holbach a Feuerbach erano critiche ad una religione ancora poco disposta – salvo eccezioni specie nel mondo protestante – ad essere "laicamente" rispettosa del pensiero altrui). Insomma, non è un po' una maniera per "salvare il salvabile" della religione dire "io ci credo per Fede" (e quindi non ti posso e non ti voglio imporre nulla: e questo è – beninteso – un enorme progresso!) ma al tempo stesso, dando alla credenza in Dio una consistenza tutta interiore quasi fosse una questione di privacy, metterla per così dire al riparo da ogni possibile critica razionale che il "non credente" può, rispettosamente, fare?
"Ma perché credi?" Così mi interpellò una volta una simpatica ragazza della Repubblica Ceca, una volta chiestomi se ero cristiano. Allora avevo ventitré anni e mi sentivo ancora – come si dice spesso – "credente a modo mio" – e le dissi "non te lo so spiegare" ma mi pentii quasi subito di questa risposta. Io, che pur consapevole dei miei limiti, ho tanto desiderio di essere capito dagli altri al punto da sognare di avere un'interiorità trasparente, non riuscivo a spiegare la mia credenza in Dio… forse perché non c'è, forse perché per sentirmi in comunione con gli altri dovevo abbandonare questa pretesa di "interiorità" che sento come un impedimento nei confronti del vivere in com-passione (nel senso etimologico del termine) con gli altri. Ripensandoci oggi penso che quella sia stata l'ultima occasione in cui mi sono detto "credente". Ma, come avviene con tutti i dualismi, abolendo la "credenza" ho eliminato anche la "non credenza", così come se si immagina che non esista più il Paradiso, non vi è ragione per ritenere che esista l'Inferno: basta soltanto osservare il cielo sopra di noi.
Mi rendo conto di avere esagerato, è da ore che scrivo. Spero di non averla annoiata e che possa trovare queste riflessioni interessanti per quello che possono valere. Se e quando avrà voglia di rispondervi, mi scriva pure all'indirizzo lucabufarale@yahoo.it 
Le auguro ogni bene.
Con stima e affetto.
Luca.