giovedì 28 maggio 2015

SONO GRATO A DIO

Bisognerebbe studiare tutte le occasioni dell'esistenza quotidiana in cui, consapevolmente o meno, noi sopravviviamo grazie alla berakhà, alla benedizione. Questo "grazie a" vuol dire "in forza di" e "a causa di" ma esprime anche consapevolezza del nostro debito e della nostra dipendenza da Dio, dalla terra, dalla pioggia e dall'acqua che fanno germogliare la terra. Dunque ringraziare è una vera e propria mitzwà, è un dovere.
Personalmente sono grato a Dio per due motivi: anzitutto per quello che finora ho ricevuto nella vita, dalla famiglia, dai miei maestri e dagli amici; e poi - e forse il più importante – per quello che io, con fede, so che riceverò. Il mio futuro è nelle mani di Dio e sono grato per quel che non ho ancora ma che avrò da Dio, e di cui sono certo in virtù dell'atto di fede. Ciò vale per questa vita e anche per la morte, nel senso che io so, per fede, che tutti coloro che muoiono saranno richiamati alla vita attraverso la promessa della resurrezione. Per chi crede, Dio è mechajè ha-metim, come ci ricorda la liturgia ebraica, ossia Colui che fa tornare in vita i morti. Sono dunque grato per il mio passato e per il mio futuro, e anche per il passato e il futuro degli altri, il cui destino io metto con la preghiera, per così dire, nelle mani di Dio. Sono poi grato anche al mio prossimo, umano e non umano. Penso anche agli animali domestici che, hanno condiviso la nostra casa, i nostri cani e i nostri gatti. E' una gratitudine reciproca, mia verso di loro e loro verso di me, che si manifesta nello sguardo reciproco. Lo sguardo del cane, del gatto o anche dell'uccello è, a sua volta, non solo un atto di gratitudine ma anche di fede, dell'animale verso di noi, e ci insegna ad avere lo stesso sguardo, da parte nostra, verso Dio. Dalla parte di Dio, esiste uno sguardo verso di noi e di cui noi siamo certi appunto per fede. Se non credessimo a questo sguardo di Dio su di noi esperiremmo la stessa disperazione che visse Gesù sulla croce: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Dunque le espressioni hosanna e hallelujah attraversano i testi ebraici e quelli cristiani, e giungono a noi in tutta la loro contemporaneità come grida del cuore, che nascono dall'esperienza ed educano a un costante dialogo con Dio. Direi che il loro ripetersi nei testi sacri ha un valore pedagogico per tutti, giovani e meno giovani, per coltivare il sentimento religioso.
Questa preoccupazione pedagogica ed esortativa - anzi imperativa - nel regno dei cieli scomparirà, e l'hallelujah della gratitudine passerà dalla seconda persona alla prima persona plurale: non più lodate, ma lodiamo. Attenzione, quell'hallelujah sarà cantato non solo dai credenti ma da tutto il creato. Anzi, il cinguettio degli uccelli e lo sbocciare dei fiori nella variegata flora terrestre sono già oggi un grande hallelujah che sale verso il Creatore come atto di fede e di gratitudine».

 (Paolo De Benedetti, Dire grazie, Morcelliana, pag. 77 – 78).