sabato 13 giugno 2015

OPINIONI DIVERSE SULLA RIFORMA DELLA SCUOLA

In queste settimane ho ospitato opinioni diverse - pro e contro - la riforma della scuola proposta dal governo Renzi. Ospito oggi questo terzo intervento di un insegnante e preside delle scuole superiori.

Con Renzi per una scuola migliore.

Tempesta sindacale e mediatica su "La Buona Scuola" di Renzi. Tutte le sigle sindacali hanno sciope-rato compatte lo scorso 5 maggio contr questa riforma ed a Roma si è svolta una grande manifestazione con migliaia di insegnanti e studenti. Parole d'ordine: il rifiuto di una scuola autoritaria, la difesa della Costituzione e della libertà di insegnamento. Anche la minoranza del Partito Democratico è sulle bar-ricate e chiede a gran voce cambiamenti radicali nel disegno di legge. Il sindacato, Cgil Scuola in testa, non ha dubbi e promette lotta a oltranza, giungendo perfino ad indire il blocco degli scrutini.
Si tratta a mio parere di opposizione preconcetta e profondamente sbagliata. Per più 25 anni sono stato un insegnante delle scuole superiori e poi un dirigente scolastico. Ho lavorato tantissimo, con grande impegno e convinzione. Sono iscritto da quarant'anni alla Cgil; da quando, per dieci anni, ho lavorato nel settore privato, prima di giungere nel mondo della scuola.
Due sono i punti che suscitano la maggiore opposizione al progetto di Renzi: il numero, considerato troppo modesto, di assunzione dei docenti precari, e la questione dei cosiddetti presidi sceriffo.
Sul primo punto dichiaro in due parole tutta la mia costernazione: si sono dimenticati, i sindacati, della legge 133 Gelmini-Tremonti del 2008 che in tre anni, dal 2009 al 2011, diminuì di 131.903 unità (di cui 87.402 docenti) gli organici della scuola a tutto favore del precariato? Si sono dimenticati della chiusura del governo di allora ad ogni trattativa? Ora Brunetta grida al "fascismo" incombente e Lan-dini e la Camusso accusano Renzi di essere peggio di Berlusconi. Come è possibile che il sindacato non applauda all'assunzione entro il prossimo settembre di 100.000 precari e che, in preda alla infelice sindrome del "più uno", scateni la più dura mobilitazione degli ultimi quarant'anni pretendendo l'as-sunzione immediata di altri 60.000 precari?
Sul secondo punto, quello dei "presidi sceriffo", sono altrettanto deluso dalle posizioni sindacali. Ai docenti, indistintamente accreditati di ogni saggezza e virtù, sacerdoti della libertà di insegnamento e tutori dei sacri principi costituzionali, si immagina contrapposto un preside despota e ignorante, pronto a gestire la scuola con poteri assoluti. Sono convinto che, al di là tanta propaganda mediatica, la grande maggioranza degli insegnanti - tutti i giorni in trincea a svolgere un lavoro bello e difficile - non abbia alcun timore all'idea di un preside dotato dei normali poteri professionali di un dirigente. Così come, all'ingresso in un ospedale, tutti ci auguriamo che a capo di quel determinato reparto ci sia un primario autorevole e ascoltato dai propri validi collaboratori.
Vorrei chiedere a quelli che gridano ai pericoli incombenti: quand'è che i docenti buoni diventano presidi cattivi, com'è che da alfieri della libertà essi diventano inesorabilmente sceriffi ignoranti e ar-roganti? Infatti tutti i presidi sono stati, in precedenza, degli insegnanti; dei professori che, avendone i titoli e la voglia, hanno assunto un ruolo diverso all'interno dell'organizzazione scolastica, previo il superamento di un concorso; e non si capisce perché in quel momento dovrebbero aver perso la propria cultura, la propria esperienza umana e didattica per trasformarsi in aguzzini. Personalmente credo di essere stato un buon insegnante e un buon preside, e di essere stato un buon preside perché sono stato un buon insegnante.
Ci sono certamente dei punti che richiedono una riflessione ulteriore, nel disegno di legge, e che mi auguro che possano essere migliorati in sede parlamentare; perché è in Parlamento che si discutono le leggi e si fanno le riforme. Ma mi pare irragionevole e pregiudiziale l'accanimento dei sindacati e della minoranza interna del Partito Democratico.
In realtà temo che dietro la difesa della libertà di insegnamento (talvolta intesa, tout court, come "li-bertà"), possa esserci piuttosto la difesa di un certo garantismo eccessivo presente nella scuola. Lo dico senza alcun timore: accanto a tanti docenti seri, coscienziosi e operosi ce ne sono altri che tirano a campare, che non si aggiornano da anni, che si rifiutano di fare qualsiasi cosa in più del solito tran-tran. E tale distinzione non coincide affatto tra insegnanti di ruolo o precari, se è vero che ci sono tanti
tantissimi precari che, assunti sistematicamente a settembre e licenziati a giugno, risultano del tutto affidabili e professionali, e troppi docenti di ruoli, in proporzione, che manifestano un impegno "pre-cario" nel proprio lavoro.
Mi dica qualcuno, che abbia esperienza e consapevolezza del mondo della scuola, se abbia mai visto un docente normalmente operoso avere qualcosa da temere da parte del preside, oppure avere perso-nalmente bisogno della difesa dei sindacati. Al contrario mi dica quante volte il sindacato non selezioni affatto i propri interventi e si trovi a difendere spesso situazioni inopportune se non peggio.
La libertà di insegnamento sancita dall'art. 34 della Costituzione è una questione troppo seria per es-sere nominata a vanvera. Si riferisce alle libertà fondamentali dell'essere umano, non può essere tirata in ballo per consentire che - al di là degli omaggi di rito alle riunioni collegiali - di fatto ogni docente in particolare delle scuole superiori organizzi e gestisca in totale autonomia i propri corsi, le proprie relazioni professionali con gli studenti, con gli altri docenti e con i genitori.
Forse dietro l'opposizione frontale di qualcuno ad ogni riforma della scuola e dietro tanta polemica contro improbabili "presidi sceriffo" ci cela l'incapacità di adattarsi ai ruoli, di comprenderne le ragioni positive, funzionali e realmente democratiche; l'incapacità di lavorare davvero con gli altri, di mettersi in gioco, di riconoscersi all'interno di un organismo sociale piuttosto che di un conflitto sociale per-manente.
Io credo la nostra società debba ringraziare ogni giorno i milioni di insegnanti che hanno dedicato e dedicano la propria vita alla scuola; ma credo venuto il momento, a settant'anni dalla Liberazione, di affrontare i problemi del presente senza alcuni pregiudizi ideologici che alla fine rischiano di bloccare e mortificare il sistema. Deve essere certamente salvaguardata la libertà di insegnamento, ma definen-done le caratteristiche ed i limiti; e deve altrettanto essere salvaguardata la bontà, l'efficacia, la corret-tezza dell'insegnamento, senza rimandare tale questione all'infinito, con la pietra al collo degli "sti-pendi troppo bassi" o della "formazione mai ricevuta".
Si può correggere qualcosa nel profilo che dovrà avere il dirigente scolastico con la riforma renziana; ma sicuramente egli dovrà avere delle prerogative nuove che inevitabilmente faranno scontento qual-cuno. E' perfino un miracolo che la scuola vada avanti lo stesso, con le sue strutture organizzative invecchiate o inadeguate, mai sottoposte a verifica e anzi bloccate da una certa retorica. Penso agli organi collegiali, frutto dalla prospettiva innovatrice (ma a suo tempo fieramente contestata dalla sini-stra radicale) dei Decreti Delegati del 1974, ai quali si continua ad attribuire una inviolabile "sovranità" a prescindere dalla qualità ed efficacia del loro reale funzionamento. Come funzionano davvero i Con-sigli di Classe, i Collegi Docenti, il Consiglio di Istituto, i Dipartimenti Disciplinari, come viene assi-curato il loro buon servizio nei confronti dell'utenza? E, a proposito della scuola dell'autonomia, quanto conta davvero il Piano dell'Offerta Formativa nella didattica d'aula, e quanto siamo lontani da quel "Bilancio Sociale" che dovrebbe rendere pubblicamente e sistematicamente verificabile l'attua-zione del POF al di là da ogni retorica e spirito di marketing?
La scuola, oltre che di un rinnovamento profondo dei suoi professori, ha bisogno di dirigenti che or-ganizzino, operino delle scelte, prendano delle decisioni. Non so quanti abbiano letto almeno una volta l'articolo 21 della Bassanini, cioè della Legge n. 59 del 1997, o il DRP 275 del 1999, ma c'era indub-biamente un'intenzione originale e interessante in quel l'idea di decentramento amministrativo, di con-ferimento - da parte dello Stato centrale - di funzioni e di compiti nuovi alle autonomie scolastiche, dell'assunzione strategica del "principio di sussidiarietà". Ma che fine ha fatto davvero l'autonomia scolastica, come essa è stata attuata in questi primi quindici anni dalle scuole e come è stata "usata" dallo Stato?
La scuola deve provare ancora una volta a mettere gli studenti al centro del proprio sistema, elaborando tutte le strategie possibili per rilanciare un processo di acculturamento e di civilizzazione. Ha bisogno di adulti, di professionisti, di professori (per favore, non di "prof"!) capaci di suscitare il rispetto e l'imitazione dei giovani, in una prospettiva comune di responsabilizzazione e di impegno. Di concen-trarsi davvero nella ricchezza della relazione pedagogica e formativa, nella didattica d'aula e di labo-ratorio, piuttosto che disperdersi talvolta in altri progetti meno importanti.
Sono problemi politici, di competenza del Parlamento e del Governo, oltre che di fondamentale inte-resse dei cittadini. Ma sono problemi su cui si potrebbe esercitare anche, con qualche generosità, il mondo sindacale, visto che di fatto esso si pone da tempo come soggetto politico a tutto tondo, titolato a concertare ogni cosa con il potere.
Il problema è che nella scuola il sindacato si è ritagliato da tempo un ruolo innaturale e per certi aspetti di comodo, diventando un elemento di conservazione e smarrendo quella carica progettuale e morale di tanti anni fa. C'era don Milani, c'era Gramsci nel cuore e nella mente nei docenti impegnati di un tempo. C'era la memoria e la consapevolezza di una scuola che era partita della povertà e dai problemi dell'Italia post-risorgimentale e post-fascista, che si era diffusa negli anni del boom economico e dei grandi flussi migratori interni; c'era la fiducia in una scuola capace di giungere adulta al futuro, all'al-tezza di nuove sfide e nuove difficoltà. Difficoltà e problemi che ahimè sono giunti puntuali, con il volto di una inaspettata crisi industriale e di nuovi drammatici conflitti planetari.
Ma il sindacato della scuola è arrivato in ritardo all'appuntamento con il presente, rifiutando sistema-ticamente ogni innovazione e ogni cambiamento. Senza parole d'ordine innovative, senza un impegno morale forte e coerente con il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione. Si oppone adesso a Renzi e al ministro Giannini, con impeto perfino maggiore di come si oppose negli anni recenti alla Moratti e alla Gelmini; e prima ancora non seppe sostenere la volontà di rinnovamento del primo governo Prodi e del ministro Luigi Berlinguer. Di quella stagione lontana sembrano sopravvivere soprattutto le aspettative verso il Fondo di Istituto, visto come una piccola opportunità (ma qui la responsabilità non è solo del sindacato!), per rimediare in qualche modo una mensilità aggiuntiva.
Va sempre tutto male, a suo giudizio, nella scuola; ma appena si prova a cambiare qualcosa, si grida alla distruzione della scuola e della democrazia. Intanto dilagano nell'opinione pubblica le parole d'or-dine delle ruspe, dell'occupazione delle prefetture, delle forche e dei forconi. Di qualcuno che, natu-ralmente a nome del popolo, della rete, della libertà ecc. ecc., si candida davvero a fare lo sceriffo di tutti.
12 giugno 2015
Giovanni Trinchieri