lunedì 6 luglio 2015

A PROPOSITO DI SCUOLA..


Scuola, Lingiardi: "Difendiamo i nostri figli dal bullismo omofobico"

ROMA -
Dopo il riconoscimento del matrimonio egualitario in tutti gli Usa, la discussione sul gender appare - oggi più che mai - come uno strenuo, malcelato tentativo di portare indietro le lancette della Storia. "Stop al gender e difendiamo i nostri figli sono gli slogan che hanno ripetuto i manifestanti al Family day. Ma i figli bisognerebbe difenderli tutti" rilancia Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, curatore dell'edizione italiana del libro di Ian Rivers Bullismo omofobico. Conoscerlo per combatterlo (il Saggiatore).

Prof. Lingiardi, difendere i nostri figli da cosa?
Certamente non dalla varietà umana e dall'educazione alle pari opportunità, che passa necessariamente da una riflessione sugli stereotipi di genere. Piuttosto dobbiamo proteggerli dal bullismo omofobico, da quei pregiudizi che soprattutto nelle nostre scuole possono fare male da morire.

Cos'è il bullismo omofobico?
C'è chi parla più genericamente di "difficoltà" nei contesti scolastici. Io preferisco chiamare le cose con il loro nome, "bullismo omofobico" ad esempio. Si tratta di comportamenti finalizzati a emarginare, deridere, denigrare o picchiare un compagno o una compagna di scuola, in quanto omosessuali o presunti tali, magari perché lui è "troppo" effeminato o lei è "troppo" maschiaccia. È un modo di perpetuare il dominio di chi si crede ed è creduto "forte" su chi è creduto, e troppo spesso si crede, "debole". Ed è il risultato di un disagio psichico e relazionale del bullo o, sempre più spesso, della bulla, un modo spaventato e infelice di affermare la propria presunta e rassicurante normalità.

Le vittime sono spesso costrette al silenzio. Cosa possono fare gli insegnanti per riconoscere questo particolare tipo di bullismo?
Bisogna saper cogliere se in classe aleggia un clima pesante, negativo, e bisogna stare attenti alle manifestazioni di sofferenza individuale non esplicitate. Soprattutto nei momenti della ricreazione, o dell'inizio o della fine delle lezioni. E accorgersi quando i ragazzi non vengono a scuola volentieri - il bullismo omofobico, come sappiamo, è motivo di dispersione scolastica.

Quali sono i sintomi più comuni?
Sicuramente tristezza, depressione, isolamento sociale, ma anche difficoltà relazionali. Si tratta di uno stress continuativo e cumulativo. Vorrei però ricordare che negli ultimi anni sono fiorite molte iniziative. Dai progetti americani It gets better e Trevor project fino all'esperienza italiana di Le cose cambiano. Ci sono anche associazioni scolastiche che favoriscono l'amicizia tra studenti e studentesse gay e etero: quelle che in America si chiamano Gay-Straight Alliance si fanno finalmente strada anche nel nostro Paese superando pregiudizi culturali del tipo: "Se mi metto a difendere i gay pensano che sono frocio anch'io".

Alcuni insegnanti non sanno come affrontare l'argomento e temono di sbagliare. Per questo non ne parlano.
Gli adulti, soprattutto coloro che educano e istruiscono i giovani, devono adoperarsi affinché l'educazione e lo sviluppo avvengano in contesti sicuri e attenti alle sensibililtà di tutti. Come ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, contrastare il bullismo omofobico è una sfida comune a cui siamo chiamati tutti: genitori, familiari, insegnanti, vicini di casa, dirigenti di comunità, giornalisti, figure religiose o funzionari pubblici. Dobbiamo impegnarci, come del resto ci chiedono l'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'Unesco e tutte le più importanti associazioni per la salute mentale, per includere nei programmi formativi l'educazione alla sessualità e all'affettività, anche se a volte questo non incontra il favore dei dirigenti scolastici.

È proprio contro programmi scolastici di questo tipo che si oppongono i manifestanti del Family day?
Gli organizzatori seguono una loro ideologia e si guardano bene dal confrontarla con la letteratura scientifica internazionale. Basterebbe leggere un breve, recente documento dell'Associazione Italiana di Psicologia che spiega come inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l'orientamento sessuale non significhi promuovere un'inesistente "ideologia del gender", bensì fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell'affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana. Di fatto promuovendo, certo attraverso metodologie didattico-educative adeguate, occasioni di crescita personale e culturale e una cultura dello scambio, della relazione, dell'amicizia e della nonviolenza.

Che tipo di metodologia può essere più adeguata?
Quando una scuola si rivolge finalmente a uno psicologo per migliorare il clima in una classe è importante coinvolgere l'intero gruppo. E a volte è più utile rivolgere l'attenzione alla prepotenza del "bullo" che mettere sotto i riflettori i presunti "problemi" della vittima.

I ragazzi bullizzati si rivolgono più spesso agli insegnanti o ai propri genitori?
Sicuramente agli insegnanti. Non dimentichiamo che chi viene deriso o emarginato per ragioni legate all'identità di genere o all'orientamento sessuale spesso ha paura che questa situazione possa "insospettire" i genitori e richiamare la loro l'attenzione sulla sua sessualità, rinnovando sentimenti di ansia e vergogna, e il timore di deludere le aspettative familiari e sociali. Negli ultimi anni chi viene bullizzato sta imparando a chiedere aiuto, anche se non sempre in modo esplicito. In questi casi l'insegnante deve avere un radar relazionale per capire cosa sta succedendo.

Quindi se ne parla ancora troppo poco in famiglia.
Sì, e c'è un legame pericoloso tra silenzio delle vittime e incomunicabilità con i genitori. Importanti ricerche indicano che sono proprio le esperienze di rifiuto che provengono dalla famiglia o dalla scuola ad aumentare significativamente il rischio depressivo e l'ideazione suicidaria. Sono invece fattori protettivi un clima familiare positivo, il senso di sicurezza a scuola, la possibilità di contare su adulti amorevoli e rispettosi dei percorsi di coming out. Un passaggio evolutivo, quest'ultimo, che il più delle volte favorisce la crescita delle relazioni tra genitori e figli, rinnovando la sincerità dei legami.

Cosa possono fare le vittime per liberarsi dall'omofobia?
Innanzitutto smetterla di credersi "deboli" rispetto a quelli che si credono e sono creduti "forti". E mettere a fuoco ciò che i professionisti della salute mentale sostengono ormai da tempo: essere gay o lesbica non è una malattia, ma una variante della sessualità umana. Ribaltiamo una volta per tutte i termini della questione. Il problema non è l'omosessualità, ma l'omofobia. La domanda non deve più essere Perché sono omosessuale? ma Perché sei omofobo? Il successo sarà a portata di mano, come spiega il protagonista di un bel romanzo di James Lecesne, Trevor. Non sei sbagliato: sei come sei. "Convincere un ragazzo o una ragazza che la sua vita merita di essere vissuta è convincere noi stessi che il mondo merita di essere salvato".