“Mentre
è vero che l’uso giovanneo della formulazione seguita da un
predicato corrisponde a quegli esempi nelle Scritture ebraiche dove
il Signore è chiamato salvatore (Is. 43, 11), custode (Is. 27, 3), e
guaritore d’Israele (Es. 15, 26), perché l’evangelista fa
compiere a Gesù la medesima opera salvifica di Dio, sarebbe un
errore vedere nella formula “Io sono”, usata in senso assoluto
(Giov. 8, 24.28.58), l’affermazione di un’identificazione con
Dio.
Ovviamente,
gli ascoltatori di Gesù potrebbero aver capito l’espressione in
quel modo e il vangelo registra che, affettivamente, lo hanno fatto
(cfr. 8, 50; 10, 31-33). Ma Giovanni è talmente chiaro
nell’insistere che Gesù è il rivelatore di Dio dell’età
finale, che egli è uno che viene da lassù e può parlare di Dio
soltanto come egli fa (cfr. 3, 11; 8, 26; 12, 49), che sarebbe
sbagliato vedere un abbandono di quello schema dell’uso assoluto di
“Io sono”. In questo caso, come del resto altrove, il Figlio non
fa che affermare una sua intimità assoluta con il Padre. Egli ha
unicamente il mandato di consegnare un messaggio da parte di Colui
che lo ha mandato. Egli dà un accesso unico a Dio essendo stato
scelto come unico tramite di salvezza per chiunque ascolti la sua
voce”.
(Gerard
Sloyan, Giovanni, Claudiana Ed. Torino 2008 pag. 133).