C'È UN GIUDICE A ISLAMABAD, IL CORAGGIO DI UNA SENTENZA
Esiste dunque un giudice a Islamabad. Che ha messo insieme Maometto e Shakespeare, la legge coranica e i principi del diritto anglosassone. E con una splendida sentenza di 56 pagine, nell'assolvere una donna cristiana dall'accusa capitale di blasfemia, ha ribadito i pilastri su cui è nato il Pakistan, offrendo un'interpretazione netta dell'idea musulmana di tolleranza unita alla rigorosa applicazione della legge. Un verdetto che andrebbe tradotto in tutte le lingue, perché , - attraverso le parole di Maometto sancisce una visione dell'Islam che non accetta l'estremismo e tutela le altri fedi. Fino ad arrivare, nel parere che il giudice Saed Khan Khosa ha voluto allegare alla sentenza, a ricostruire l'importanza che Gesù Cristo e la Bibbia hanno nel messaggio di Maometto. Non solo. Ha messo nero su bianco: «La blasfemia è un crimine grave ma anche gli insulti verso la religione dell'imputata e mescolare la verità e il falso in nome del Profeta non sono meno della blasfemia. E l'imputata, come nelle parole del Re Lear di Shakespeare, e "più vittima che colpevole"».
Questi magistrati sono consci dei rischi: nel 2011 l'ex governatore del Punjab che si era speso in favore della donna cristiana è stato assassinato nelle strade della capitale. I tre giudici supremi potevano limitarsi ad affermare l'insufficienza delle prove ed evidenziare le contraddizioni nell'indagine, invece sono andati oltre, entrando nel vivo della questione religiosa. E nella loro sentenza echeggiano le idee dei due padri del Pakistan, il pensiero religioso tollerante di matrice sufi del poeta Iqbal e la formazione giuridica britannica dell'avvocato Jinnah.
Principi che si scontrano con la realtà del Paese, dove masse impoverite sono state educate a un credo fondamentalista alimentato anche dalle scuole coraniche finanziate dai sauditi con la benevolenza occidentale. Subito dopo l'assoluzione un partito oltranzista ha chiamato i credenti alla rivolta, scatenando manifestazioni violente in tutte le città. Le istituzioni, a partire dalle potenti forze armate, si sono schierate al fianco dei giudici, come ha fatto con un messaggio il premier del "governo del cambiamento" Imran Khan, l'ex campione playboy che ha creato un partito populista e vinto le elezioni tre mesi fa. Ma questa protesta di massa rappresenta la prima crisi per Imran Khan, che ha costruito il suo consenso grazie all'alleanza con alcuni movimenti islamici. Quello che sta accadendo in queste ore nelle strade di Karachi e di Lahore ci riguarda molto da vicino. Non perché la protagonista è una contadina cristiana, ma perché evidenzia le difficoltà che incontra nel mondo la difesa di una lettura moderata dell'Islam e la possibilità di coniugare i valori di una democrazia con quelli della religione musulmana. Una sfida da cui dipende il futuro prossimo dell'intero pianeta.
Gianluca Di Feo
(la Repubblica 1 novembre)
Esiste dunque un giudice a Islamabad. Che ha messo insieme Maometto e Shakespeare, la legge coranica e i principi del diritto anglosassone. E con una splendida sentenza di 56 pagine, nell'assolvere una donna cristiana dall'accusa capitale di blasfemia, ha ribadito i pilastri su cui è nato il Pakistan, offrendo un'interpretazione netta dell'idea musulmana di tolleranza unita alla rigorosa applicazione della legge. Un verdetto che andrebbe tradotto in tutte le lingue, perché , - attraverso le parole di Maometto sancisce una visione dell'Islam che non accetta l'estremismo e tutela le altri fedi. Fino ad arrivare, nel parere che il giudice Saed Khan Khosa ha voluto allegare alla sentenza, a ricostruire l'importanza che Gesù Cristo e la Bibbia hanno nel messaggio di Maometto. Non solo. Ha messo nero su bianco: «La blasfemia è un crimine grave ma anche gli insulti verso la religione dell'imputata e mescolare la verità e il falso in nome del Profeta non sono meno della blasfemia. E l'imputata, come nelle parole del Re Lear di Shakespeare, e "più vittima che colpevole"».
Questi magistrati sono consci dei rischi: nel 2011 l'ex governatore del Punjab che si era speso in favore della donna cristiana è stato assassinato nelle strade della capitale. I tre giudici supremi potevano limitarsi ad affermare l'insufficienza delle prove ed evidenziare le contraddizioni nell'indagine, invece sono andati oltre, entrando nel vivo della questione religiosa. E nella loro sentenza echeggiano le idee dei due padri del Pakistan, il pensiero religioso tollerante di matrice sufi del poeta Iqbal e la formazione giuridica britannica dell'avvocato Jinnah.
Principi che si scontrano con la realtà del Paese, dove masse impoverite sono state educate a un credo fondamentalista alimentato anche dalle scuole coraniche finanziate dai sauditi con la benevolenza occidentale. Subito dopo l'assoluzione un partito oltranzista ha chiamato i credenti alla rivolta, scatenando manifestazioni violente in tutte le città. Le istituzioni, a partire dalle potenti forze armate, si sono schierate al fianco dei giudici, come ha fatto con un messaggio il premier del "governo del cambiamento" Imran Khan, l'ex campione playboy che ha creato un partito populista e vinto le elezioni tre mesi fa. Ma questa protesta di massa rappresenta la prima crisi per Imran Khan, che ha costruito il suo consenso grazie all'alleanza con alcuni movimenti islamici. Quello che sta accadendo in queste ore nelle strade di Karachi e di Lahore ci riguarda molto da vicino. Non perché la protagonista è una contadina cristiana, ma perché evidenzia le difficoltà che incontra nel mondo la difesa di una lettura moderata dell'Islam e la possibilità di coniugare i valori di una democrazia con quelli della religione musulmana. Una sfida da cui dipende il futuro prossimo dell'intero pianeta.
Gianluca Di Feo
(la Repubblica 1 novembre)