Nugnes "Cacciare De Falco è un errore, qui decide uno solo. Mi processano? Non ho paura"
«Non ho paura di niente, perché non ho nulla da rimproverarmi. Ho agito nel solco del rispetto dei valori del Movimento».
Come le è stato comunicato il provvedimento disciplinare?
«Con una mail che però non ho aperto. Ho poi letto il comunicato ufficiale pubblicato sul Blog delle Stelle».
Il senatore Gregorio De Falco, con cui avete fatto delle battaglie comuni, è stato espulso. Cosa ne pensa?
«È una scelta sbagliata. Gregorio è un uomo di principi, un parlamentare molto valido. Non ha votato la legge di bilancio, nel merito non condivido la sua scelta, ma perché cacciarlo? La verità è che De Falco non si è sentito incluso, non l'abbiamo fatto sentire parte di un gruppo. Questo è il punto politico sui cui dobbiamo interrogarci. Ormai l'assemblea si allinea sistematicamente ai voleri dell'esecutivo».
Il gruppo parlamentare ubbidisce e basta?
«In qualche misura sì. È necessario invece dare ancora un valore al Parlamento, altrimenti è meglio chiuderlo. Quando Renzi era sia capo politico che premier glielo abbiamo rinfacciato di continuo proprio dai banchi delle Camere: era una nostra battaglia storica. È chiaro che la maggioranza dev'essere a supporto del governo, non si discute, ma il governo deve saper mediare».
Il Movimento è cambiato?
«Sono cambiate le strategie per raggiungere l'obiettivo. Tuttavia non basta arrivare alla meta, conta anche come ci si arriva, perché anche il percorso definisce la nostra identità. Non possiamo scendere a compromessi, dobbiamo fare sintesi. Per fare ciò serve dialogo, condivisione. Queste qualità sono un po' mancate».
Perché non succede più?
«Prima era tutto orizzontale, si discuteva fino allo sfinimento. Adesso invece lasciamo decidere a uno solo: questa modalità non ci assomiglia, non ci appartiene proprio. Non è il Movimento».
Luigi Di Maio ha motivato l'espulsione con «nessuno è indispensabile».«Brutta frase. Così si accentua ulteriormente il verticismo, alla fine nessuno vale più nulla. Io invece penso che tutti siamo indispensabili».
Lei ha scritto su Facebook che l'uno vale uno è un sogno ormai.«Spero di sbagliarmi, confido sempre che le cose possano cambiare».
La Lega è monolitica, perché?«Perché ha un ancoraggio ideologico più strutturato, è un partito di destra ben posizionato. Noi siamo figli di tante anime. Questo imporrebbe maggiore tolleranza».
Rifarebbe la scelta sul decreto Salvini?«Domani mattina. Non potevo votarlo. In estate Di Maio disse pubblicamente che il provvedimento non era blindato e che lo avrebbe migliorato il Parlamento. Ai primi di ottobre, quando chiesi che la discussione fosse portata all'interno dell'assemblea, oltre che nelle commissioni, mi fu fatto capire che ce lo dovevamo far piacere. Allora, con Elena Fattori e Gregorio De Falco decidemmo lo stesso di presentare degli emendamenti. Me lo imponeva la mia coscienza».
Lo spiegò anche a Di Maio?
«Sì, personalmente a lui. Mi disse che bisognava votarlo: per raggiungere risultati comuni dovevamo anche cedere su qualche punto. Ma non potevo accettare lo smantellamento del sistema di accoglienza e degli Sprar. È un fatto di coscienza. Perché quel decreto delinea una visione di società che non potrà mai essere la nostra».
Lascerà i Cinquestelle?
«No, non mi muovo. Questa resta casa mia. Mi ritengo portatrice di una volontà ancora molto diffusa nel Movimento, tanta gente mi dice di andare avanti, la stessa che mi ha spinto a candidarmi. Io resto, finché me lo lasceranno fare».
Concetto Vecchio
(la Repubblica 2 gennaio 2019)
Il dissenso è democrazia. Nel Pd ero una ribelle, ma nessuno mi ha espulso
Che cosa resta della democrazia di un partito quando si viene espulsi, come è accaduto ad alcuni parlamentari del M5S, per non aver votato la fiducia al Governo o essersi astenuti? La notizia dell'espulsione, così come la giustificazione della decisione da parte di Luigi Di Maio, mi hanno fatto ripensare alla mia esperienza alla Camera durante la scorsa legislatura, al dissenso che ho spesso manifestato nei confronti del mio gruppo parlamentare, e alla decisione, nel maggio del 2016, di uscire definitivamente dal PD. Mi sono tornate in mente le notti insonni – dilaniata tra la necessità di agire conformemente ai miei valori e il rispetto della disciplina di partito, il peso del giudizio altrui e quello della mia storia personale e professionale – ma anche la consapevolezza di aver condiviso il cammino con persone che, nonostante le divergenze di opinioni e di atteggiamenti, non hanno mai rimesso in discussione la libertà e l'autonomia di ogni singolo parlamentare, che sono poi l'essenza stessa della democrazia.
Era l'autunno del 2013, pochi mesi dopo essere arrivata in Parlamento, quando mi dissociai per la prima volta dal PD. La proposta di legge sull'omofobia era finalmente arrivata in Aula, ma il PD, alla ricerca disperata di un compromesso, aveva finito con l'accettare che il testo base fosse stravolto e annacquato. Fu il mio primo voto in dissenso rispetto al gruppo, seguito poi dall'astensione sul Jobs Act, dal voto contrario alla legge sulla modifica delle norme sull'affido, dall'astensione sull'Italicum e dalle battaglie per evitare che la stepchild adoption fosse eliminata dalla legge sulle unioni civili. Ero entrata in Parlamento da persona libera, volevo uscirne altrettanto libera, nonostante la consapevolezza della necessità, in politica, di mediare, cercare il compromesso, talvolta anche cedere. Quando nel maggio del 2016 decisi di lasciare il PD, di battaglie ne avevo fatte (e perse) molte. Ero convinta che il mio partito stesse perdendo di vista gli ideali di solidarietà, giustizia sociale e inclusione, tradendo così non solo le promesse fatte ai propri elettori, ma anche parte della propria identità di sinistra. Fui quindi io a decidere. Autonomamente. Liberamente. Nel corso degli anni passati tra i banchi della maggioranza, nessuno osò mai cacciarmi o anche solo evocare la possibilità di un'espulsione. Anzi. Mi era stato chiesto di accettare la candidatura per il PD per portare avanti in Parlamento le battaglie che da anni conducevo sui diritti civili e sulle libertà individuali, e quando annunciai la mia decisione di lasciare il gruppo furono in tanti a chiedermi di restare. Ero "autonoma" e "ribelle". Qualcuno tirò anche un sospiro di sollievo quando me andai, convinto che ormai, in politica, non ci fosse più molto spazio per l'indipendenza di un intellettuale. Ma nessuno si permise mai di minacciarmi o di evocare il tradimento. Nonostante tutto, il PD resta un partito democratico che non ha mai preteso che i propri parlamentari fossero vincolati. Ricordo ancora oggi gli interventi di alcuni colleghi del M5S che chiedevano ai deputati de PD di ribellarsi alle indicazioni di voto. Cosa che io, ma anche altri, abbiamo talvolta fatto. A differenza di quanto accade loro oggi, visto che ormai un voto in dissenso implica, automaticamente, l'espulsione dal gruppo. Ma che cosa resta dell'etica deliberativa, essenziale alla democrazia, quando si invoca un "vincolo di mandato" che obbliga tutti a comportarsi come semplici burattini?
Michela Marzano
(la Repubblica 2 gennaio 2019)