Alejandro
Solalinde è
uno di quei sacerdoti che non piacciono troppo alle gerarchie
ecclesiastiche: da quando ha
scelto di stare in prima linea per difendere i migranti che dal
Centroamerica tentano di raggiungere l’El Dorado americano,
deve guardarsi dai cartelli del narcotraffico e dai politici
messicani, gran parte dei quali vorrebbe vederlo morto.
La storia
di padre Alejandro è raccontata nei dettagli da Lucia
Capuzzi, giornalista
di Avvenire.Definito il “don Ciotti messicano”, Solalinde denuncia il ruolo del Messico, da tempo trasformatosi nel gendarme degli Stati uniti per respingere i migranti in fuga dal triangulo norte (Guatemala, Honduras, El Salvador), una delle regioni più violente del pianeta.
La lettura scorre veloce, grazie all’indovinata alternanza tra il dialogo della giornalista con il sacerdote e alcuni capitoli scritti dallo stesso Alejandro Solalinde.
Il religioso spiega come ha scelto l’opzione preferenziale per i poveri, cara alla Teologia della Liberazione, e nel farlo emerge un percorso molto simile a quello di monsignor Oscar Romero e di don Samuel Ruiz, il vescovo di San Cristobal che per anni è stato il mediatore tra lo Stato messicano e gli zapatisti.
Con Romero e Ruiz, Solalinde condivide l’iniziale indole conservatrice.
Padre Alejandro racconta che da giovane apparteneva all’associazione parafascista Yunque, ancora oggi ben ramificata in America latina.
Fu il Concilio Vaticano II ad aprirgli gli occhi, così come fu un incontro con le donne indigene di Oaxaca, che vendevano cianfrusaglie per la strada, a cambiargli la vita. In quella circostanza, racconta Solalinde, «provai vergogna di me stesso. Indossavo un abito alla moda, ero ben pettinato e portavo il mio profumo preferito.
Più che un prete, sembravo un dandy».
Come non pensare a un percorso comune fra i tre, ricordando la celebre confessione di Ruiz, «per molti anni sono stato come un pesce, dormivo con gli occhi aperti, guardavo e non vedevo», o il cammino di monsignor Romero, formato nella più rigorosa disciplina ecclesiastica, lontana dal popolo, che scelse definitivamente da che parte stare a seguito dell’omicidio del suo amico e sacerdote gesuita Rutilio Grande?
Solalinde ammette che è stato intorno ai 60 anni che ha deciso di militare attivamente per la giustizia sociale e lo ha fatto fondando, nel 2007, l’Albergue Hermanos en el Camino, un centro di aiuto e rifugio per i migranti che provano ad arrivare negli Stati uniti.
Da allora, la sua denuncia dei legami tra i cartelli della droga e il potere è stata instancabile, soprattutto nel contesto di quella che ormai in Messico è conosciuta come una narcoguerra.
La strategia delle autorità di Ixtepec, la città dove Solalinde ha fondato l’Albergue, è stata quella di spaventarlo per costringerlo a tacere.
Una volta, una folla inferocita ha cercato anche di appiccare il fuoco non solo al rifugio per i migranti, ma anche al sacerdote stesso.
Eppure la sua risposta è sempre stata ferma e decisa: se i narcotrafficanti restano qui, anch’io non mi muovo. Non me ne vado nemmeno morto.
Infine, al ritmo incalzante del libro contribuiscono le inchieste di Lucia Capuzzi, sul traffico di esseri umani, su quello di organi, sulla vulnerabilità delle donne, che quando intraprendono il cammino verso gli Stati uniti purtroppo sono costrette a mettere già in conto violenze di ogni tipo e, più in generale, su un paese, il Messico, dove la criminalità si è ormai sostituita allo Stato.
Lucia Capuzzi Emi, 2018, 15 euro
LE MONDE DIPLOMATIQUE