di
Claudio Tito
Imembri del
governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se
richiesti obbligo, di assistere alle sedute». Questo è l’articolo
64 della Costituzione. Presentarsi in Aula, alla Camera e al Senato,
non è una facoltà a disposizione di un ministro o di un
vicepresidente del Consiglio. Non si tratta di una concessione da
valutare di volta in volta. Ma semplicemente di un «obbligo».
La
scelta di Salvini di rifiutare il confronto con il Parlamento
costituisce soltanto una lesione ai diritti della minoranza e in
questo caso anche della maggioranza. Il silenzio in un contesto del
genere diventa un eversione.
Un
membro del governo ha il dovere di conoscere quali siano i suoi
obblighi costituzionali ma soprattutto ha prestato giuramento proprio
su quei precetti. Il suo impegno è in primo luogo quello di tutelare
l’assetto istituzionale previsto dai costituenti. Il Parlamento non
è in vita per dare o ritirare una tantum la fiducia
all’esecutivo. Le Camere esercitano il controllo sul governo. E si
chiama Parlamento perché si parla e non può essere ridotto ad un
bivacco di manipoli. E nemmeno a un ordinario tribunale che
stabilisce se un comportamento è reato o meno.
Le
sanzioni, in quella sede, vanno oltre i reati. È la politica, la
dignità delle istituzioni, è l’onore di chi rappresenta il Paese.
Esiste un contratto che lega indissolubilmente governo, Camere e
cittadini: si chiama democrazia parlamentare.
Ma
evidentemente il capo della Lega non si sente vincolato a quel
contratto o ha paura. Paura di aver commesso un errore fatale, di
aver inseguito la sua ambizione con metodi illeciti o disonorevoli.
Come
nella Metamorfosi di Kafka, teme diventare un «insetto
immondo». Del resto, un cambiamento in effetti è già in corso.
Matteo Salvini fino a poche settimane fa sembrava una sorta di Re
Mida. Eppure dopo le ultime elezioni europee e soprattutto con
l’esplosione dello scandalo Moscopoli, la capacità di attrarre gli
alleati, di tarare i competitor sulle sue caratteristiche e di
rappresentare la calamita unica degli interessi diversi del Paese,
sta mutando in isolamento. Si sta chiudendo lo strambo "doppio
forno" nel quale poteva cucinare le sue pietanze
alternativamente con il Movimento 5 Stelle attraverso il governo
nazionale e con il classico centrodestra a livello regionale e
locale. Indispensabile e coccolato dai grillini, vitale e agognato da
Berlusconi e Meloni.
Prima
dell’ultima tornata elettorale, appariva lo spauracchio
dell’Europa. Fedele amico della Russia di Putin e autocandidato a
diventare il primo interlocutore di Trump negli Stati Uniti. Tutto,
molto velocemente – come spesso ormai capita nella politica
italiana – sta però cambiando. I pentastellati lo attaccano e lo
lasciano solo a Bruxelles. Gli chiedono conto di quel che è successo
all’Hotel Metropol di Mosca. Forza Italia, almeno la componente
berlusconiana, lo tratta alla stregua di un nemico pubblico numero 1.
In Europa, passata nelle urne la paura sovranista, è sempre più
emarginato. Non solo. Il Cremlino appare distaccato, se non freddo,
dinanzi all’ affaire Moscopoli. E per Washington è un alleato
inaffidabile, uno di cui non riesce a provarne la lealtà.
Salvini
è isolato in Italia, in Europa e nel mondo risponde con il solito
argomento: gli italiani sono dalla mia parte.
Un
terzo sì , i due terzi però sono contro di lui. È questa la
differenza. E allora si può governare un Paese complesso come
l’Italia senza sponde, moltiplicando i nemici in casa e fuori? In
Salvini c’è qualcosa di più: una insostenibile leggerezza
dell’apparenza che indebolisce il Paese e le istituzioni. Ma quando
un uomo che dovrebbe essere delle istituzioni rifiuta le istituzioni,
la democrazia diventa più fragile.
La
Repubblica 17 giugno