NOI SIAMO CHIESA
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L'“ideologia
della vita sempre e comunque” è stata rilanciata dal Card. Bassetti a
proposito di eutanasia e di suicidio assistito. Proponiamo il suo
superamento ed una discussione a tutto campo sul fine-vita che prenda
atto degli errori del passato e che rifletta su un rapporto corretto tra
l’etica e la legge.
Martedì 24 settembre scadrà il termine che la Corte
Costituzionale ha proposto al Parlamento per discutere ed eventualmente
modificare l’art. 580 del Codice Penale in materia di agevolazione al
suicidio. In assenza di deliberazioni, la Corte deciderà. Negli ultimi
mesi la discussione è stata vivace, da una parte c’è stata la posizione
di chi voleva “usare” di questa scadenza per passare all’approvazione di
una normativa esplicita sull’eutanasia e sul suicidio assistito;
dall’altra molte organizzazioni cattoliche e la gerarchia, che hanno
alzato le barricate contro questa prospettiva, arrivando al massimo ad
accettare nel codice attenuanti nei confronti di imputati nella
condizione di Marco Cappato che ha aiutato DJ Fabo a recarsi in Svizzera
per ottenere là il suicidio assistito. Questa vicenda è ben nota.
È ripresa quindi la discussione sugli aspetti giuridici
della questione, sul fine-vita, sull’autodeterminazione del singolo,
sugli interventi terapeutici e su molto altro, sulla scia di quanto
coinvolse l’attenzione dell’opinione pubblica ai tempi del caso Welby,
del caso Englaro e poi della discussione della legge sul testamento
biologico. Le diverse posizioni sono ancora piuttosto reciprocamente
contrapposte e attraversano, in parte in modo orizzontale, le forze
politiche.
Bassetti espone la linea della CEI…
Molte organizzazioni cattoliche si sono ritrovate lo
scorso 11 settembre in un affollato incontro a Roma, con l’autorità del
Card. Bassetti, presidente della CEI, a esprimere con passione la loro
forte preoccupazione per l’imminente sentenza della Corte, nella più che
probabile assenza di una decisione del Parlamento. Bassetti ha chiesto
alla Corte di concedere dei tempi supplementari al legislatore, da cui
spera di ottenere una posizione diversa da quella, prevedibile, da parte
della Consulta e che sia fondata solo sulla concessione di attenuanti
per casi specifici di suicidio assistito (qualora gli imputati “siano i
famigliari o coloro che si prendono cura del paziente”). Inoltre la CEI
punta molto sulla diffusione delle cure palliative che, previste già
dalla legge del 2010, sono nei fatti disponibili solo a macchia di
leopardo nelle strutture sanitarie del nostro paese. Il testo di
Bassetti “a nome della Chiesa italiana” e l’apertura di prima pagina
dell’Avvenire del 12 settembre (“Suicidio assistito rischio di
voragine”) indicano quanto la questione venga considerata centrale e
degna di ampia mobilitazione da parte del mondo cattolico, sia subito
che nel prossimo futuro.
L’intervento conferma (era ovvio) il rifiuto dell’accanimento terapeutico, critica il concetto di “libertà del soggetto” (“non è una scelta di autentica libertà”) che ispira la posizione proeutanasica, dice che tra “i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2 della Costituzione) non c’è quello di disporre della propria vita e che “vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente”, mentre “è un atto di egoismo sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare” (ci
domandiamo se queste affermazioni siano in sintonia con lo spirito di
misericordia e di compassione di cui parla il Vangelo). Infine “la
stessa malattia, se vissuta all’interno di relazioni positive, può
assumere contorni molto diversi, e fare percepire a chi soffre che egli
non solo riceve, ma anche dona”. Quest’ultimo punto è del tutto
condivisibile. Bassetti si intrattiene poi sul vero timore dei vescovi,
quello del “piano inclinato” per cui, con una diversa normativa, “diverrebbe
sempre più normale il togliersi la vita e ciò potrebbe avvenire di
fatto per qualunque ragione e, per di più, con l’avvallo e il supporto
delle strutture sanitarie dello Stato”. Nella sua linea vivacemente
polemica, Bassetti non evita di ripetere la polemica sulla legge
219/2017 sulle DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) per mettere
in discussione una volta ancora il fatto che il malato possa rifiutare
l’idratazione, la respirazione e l’alimentazione forzata: di conseguenza
il cardinale chiede anche una modifica della legge perché vi sia
previsto un esplicito riconoscimento dell’obiezione di coscienza
all’accettazione della stessa da parte di medici e infermieri.
…senza sfumature
L’intervento sbrigativo ed autoritario del Card. Bassetti
riprende la linea rigida e “facile”, senza sfumature, che i vescovi
(nella loro grande maggioranza, e comunque la CEI come istituzione
ecclesiale) hanno tenuto negli ultimi quindici anni, quando ci sono
stati i casi clamorosi di cui abbiamo detto, che hanno fatto riflettere
sul fine vita l’opinione pubblica ed esperti, medici, teologi. Ci furono
campagne d’opinione diffuse, interventi privi di ascolto e di
riflessione sulle situazioni concrete, sempre in antagonismo col “nemico
laicista”, valori ritenuti assoluti, senza confrontarli con altri
valori, pure legittimi, creando così dei cortocircuiti che l’opinione
pubblica ben ricorda. È una cronaca abbastanza recente.
La riflessione di Noi Siamo Chiesa
In questo contesto abbiamo rifiutato le semplificazioni,
le soluzioni sempre valide, le certezze. Nei testi che abbiamo scritto e
periodicamente aggiornato (si legga qui)
sono stati tanti gli interrogativi e le ricerche, insieme a qualche
risposta convinta che ci siamo dati. In partenza abbiamo considerato
l’importanza del contesto che dovrebbe circondare il malato. Nello
scorso febbraio è stato firmato a Roma, anche da rappresentanti di
istituzioni cattoliche, il “Manifesto interreligioso dei percorsi di fine vita”,
che dice tutto quello che è doveroso per rispettare ed aiutare la
sofferenza del paziente in ogni sua dimensione, materiale e spirituale.
Siamo in sintonia con questo testo. Poi ci è apparsa la complessità di
una medicina in rapido mutamento davanti alle nuove terapie,
all’allungamento medio della vita, alle nuove patologie, ai nuovissimi
interventi sanitari che permettono di tenere in vita, artificialmente ed
anche per lunghi periodi, una persona ammalata e priva di coscienza. Ci
siamo trovati di fronte alla “zona grigia” del fine-vita, con le tante
situazioni intermedie sulle quali non è facile intervenire con norme di
legge, alle differenze continue tra un fine-vita ed un altro, alla
soggettività di ogni paziente ed alle sue sofferenze, alla dignità umana
da tutelare anche in condizioni irreversibili, alla differenza tra vita
biologica e vita biografica, alla ricerca più che difficile nelle
Scritture di parole decisive sul valore “assoluto” della vita, alle due
sfere distinte dell’etica e del diritto che indicano che non si può
imporre una legge valida erga omnes quando diverse e non poche
sono le cosmovisioni presenti nella società; al fatto che, per quanto ci
riguarda come credenti, il fine vita è un compimento, ma anche un nuovo
inizio che la misericordia di Dio ci dona. Di ciò troppo poco se ne
parla, troppo poco ci si pensa.
Questa posizione prudente, che chiedeva un “diritto
mite”, ha anche riflettuto sulla solitudine del malato, sulla sua
possibile domanda di spiritualità, sulle strutture sanitarie e sociali
di appoggio e sulla “ineguaglianza terapeutica” di cui ha parlato papa
Francesco a proposito delle differenze, spesso profonde, tra la quantità
e la qualità degli interventi sanitari nello stesso paese, ma poi di
incredibile dimensione tra i vari paesi del mondo. Insomma ci sembra che
si debba riflettere, senza posizioni prevenute ed apodittiche che
pretendono di risolvere tutto e in modo univoco sulle grandi questioni
della vita, della morte, della sofferenza e della malattia.
Proponiamo di discutere
Partendo da questa nostra posizione, ci troviamo davanti
ancora alla riproposizione della linea unilaterale dei vescovi italiani
che si propone come unica e che vuole organizzare una mobilitazione nei
confronti delle Istituzioni perché riprendano alla lettera le sue
posizioni sulla vita, chiedendo che esse siano accettate anche
nell’interesse dell’intera comunità civile. Sono tante le questioni che
vogliamo porre. Ci chiediamo perché non si assume una attitudine più
problematica, più di ricerca, che sia richiesta a tutti nel mondo
cattolico e che sia accettata anche dalle organizzazioni prolife.
Ci chiediamo se non sia evangelico rispettare l’idea del fine-vita che è
propria di chi non ha una visione religiosa dell’esistenza oppure che,
nel momento supremo, non accetta l’ultimo scampolo di vita affidandosi
serenamente al destino o alla Provvidenza in cui crede o di cui dubita.
Si apra un dibattito, si ascoltino i tanti soggetti coinvolti dal vivo
nelle questioni del fine-vita (medici, infermieri, assistenti
sociali...). I familiari e i malati, per quanto possibile, esprimano
come vivono la loro condizione. Ci chiediamo: perché non sono tenute in
considerazione le diverse circostanze in cui il fine-vita si
presenta, che cosa si intenda per “morte naturale”, quanto sia ancora
accettabile un “diritto naturale” rigido e immutabile nel tempo e nello
spazio, se ogni norma etica non si debba confrontare a fondo con le
circostanze che ha di fronte.
Michele Gesualdi
Tra le tante cose dette ci hanno particolarmente
emozionate quelle di un cattolico, allievo di don Milani, Michele
Gesualdi, che due anni fa, di fronte alla prossima morte per SLA,
scrisse: “La vita è sicuramente il più prezioso dono che Dio ci ha
fatto e deve essere sempre ben vissuta e mai sprecata. Però accettare il
martirio del corpo della persona malata, quando non c’è nessuna
speranza né di guarigione, né di miglioramento, può essere percepita
come una sfida a Dio. Lui ti chiama con segnali chiarissimi e
rispondiamo sfidandolo, come se si fosse più bravi di lui, martoriando
il corpo della creatura che sta chiamando, pur sapendo che è un martirio
senza sbocchi”.
La posizione delle Chiese evangeliche
Nella nostra riflessione abbiamo cercato quanto si dice
da parte di altri cristiani, non soggetti alla autorità della nostra
Chiesa particolarmente rigida su queste questioni. La Commissione
bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi ha lungamente
discusso ed alla fine (aprile 2017) ha scritto un testo di cui ci piace
riportare il passo centrale per sottoporlo alla riflessione comune. È un
testo che vogliamo discutere, lo consideriamo un punto importante in
una direzione ragionevole e del tutto interna alla ricerca dei credenti
nell’Evangelo anche della Chiesa cattolica.
Esso dice: “Da questa specifica prospettiva,
l’assunzione che la richiesta di essere aiutati a morire possa essere
sempre interpretata come un rifiuto del dono di Dio, e di conseguenza
del legame con Dio stesso, ci sembra fondata su una ricostruzione
unilaterale, e difficilmente giustificabile, della logica del dono.
Quest’ultima, infatti, non implica necessariamente che ciò che viene
donato sia indisponibile a colui che riceve; implica piuttosto l’idea di un uso grato e responsabile del
bene ricevuto, che tenga conto della relazione che in tal modo si è
instaurata. In questo senso, riteniamo che la richiesta di persone
ammalate, che in situazioni di sofferenza estrema esprimano il desiderio
di non trascorrere gli ultimi giorni nell’incoscienza indotta dai
trattamenti antalgici necessari a lenire un dolore non altrimenti
sopportabile, non debba necessariamente essere considerata come
l’espressione del desiderio di assolutizzare la propria libertà finita
di fronte alla morte, né un rinnegamento del rapporto con Dio. Può anche
essere la conseguenza del desiderio di disporre in modo responsabile
del dono della vita ricevuta e della fiducia in una grazia che accoglie
l’oppresso e lo sfinito, dell’affidamento a un Dio che non chiede un
tributo di sofferenza, che non impone condizioni e obblighi e che non
sottomette l’uomo a principi, ma invece lo libera gratuitamente,
mettendo nelle sue mani anche la possibilità di rinunciare a continuare
l’esistenza terrena. La scelta di morire, che in certi casi può
effettivamente essere interpretata come rifiuto del dono, in altri casi
può invece essere compresa come l’espressione della sua accettazione:
può essere un atto di consapevolezza del limite dell’esistenza umana,
un’assunzione della misura non infinita della propria capacità di
tollerare la sofferenza e, come vedremo, persino un’espressione di amore
nei confronti del prossimo”.
Conclusione
Davanti al tema del fine-vita, ultrasensibile, che
coinvolge il vissuto più intimo della persona umana, i toni gridati, le
campagne, la volontà di fare pressione sul Parlamento ed altro ancora
dovrebbero essere superati. Vale di più pensare e realizzare, anche
nelle tante strutture sanitarie della Chiesa cattolica, la linea
dell’accoglienza, dell’attenzione alle solitudini e alla domanda di
spiritualità che è presente nel fine-vita, delle terapie utili
(palliative e non), della comprensione dell’irriducibile unicità della
condizione del singolo paziente. Vale di più combattere le grandi
sperequazioni esistenti tra chi può sempre curarsi bene e chi può solo
curarsi male o non può curarsi mai.
Domandiamo che si discuta. Nella medicina e nella società
ci sono situazioni inedite che esigono discernimento, dialogo, umiltà e
non parole d’ordine e principi assoluti. La linea di una vera e propria
“ideologia della vita” (che ci appare perfino idolatrica) non può
continuare; bisogna riflettere sugli errori del recente passato per
essere attrezzati a dialogare con la sensibilità laica e con le
convinzioni di coscienza maturate da molti credenti appartenenti alla
nostra Chiesa (tra questi Hans Küng); bisogna essere consapevoli che in
futuro la linea della Chiesa probabilmente dovrà cambiare. E bisogna
sempre essere ben convinti che, per noi, la fine è l’inizio della vita.
Roma, 14 settembre 2019 NOI SIAMO CHIESA
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