Ecco
come Sir Thomas More (Tommaso Moro, 1478-1535) immagina che debba
essere regolato il fine-vita in una società bene ordinata:
“I
malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano
proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e
il vitto; anzi alleviamo gli incurabili con l’assisterli, con la
conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile.
Se
poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo
sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto
a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso,
sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in
capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua
vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente
si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o
supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli
altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà
non gli agi ma il martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché
in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli
interpreti della volontà di Dio.
Chi
si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero
si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien
levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel
curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è
onorevole….”
Da:
Tommaso Moro, Utopia,
Universale
Laterza 1984, pagg. 97/98