APPUNTI
DALLE RIUNIONI DEL GRUPPO BIBLICO DEL 19 DICEMBRE 2019 E 10 GENNAIO
2020 CONDOTTE DA DON FRANCO BARBERO SUL TEMA: “I RACCONTI DI
MIRACOLO NELLA BIBBIA EBRAICA”.
Leggiamo
il libro del Deuteronomio per cogliere i passi in cui si evidenzia il
miracolo di liberazione del popolo eletto ad opera del Signore: fin
dal primo capitolo il discorso di Mosè ripercorre la storia della
liberazione dalla schiavitù dell'Egitto che ha fasi alterne, di
perdita di fiducia in Dio di fronte ai pericoli che si presentano
lungo il cammino nel deserto, (1,27) cui si contrappongono parole di
incoraggiamento da parte dello stesso Mosè, che riprende espressioni
di estrema tenerezza (“il Signore, tuo Dio, ti ha portato come un
uomo porta il proprio figlio, 1,31) che ricorrono spesso nel testo
della Bibbia.
Da
queste letture emerge un concetto di miracolo diverso da quello che
intendiamo tradizionalmente: non più un evento che infrange le leggi
della natura e perciò appare come straordinario e meraviglioso, ma
una esperienza che tocca il cuore e dà senso alla vita, un
avvenimento che viene descritto con un linguaggio immaginifico: Gesù
guariva i lebbrosi nel senso che li inseriva nella società dalla
quale prima erano esclusi; il miracolo è innanzi tutto un atto di
solidarietà e va letto come evento di liberazione. Tutti noi abbiamo
le nostre idolatrie dalle quali liberarci trasformandoci da schiavi
in figli. Questo è il miracolo.
Al
capitolo 4, v.9 ritorna un motivo ricorrente, quello della memoria:
non bisogna dimenticare gli eventi di liberazione e bisogna fare in
modo che la memoria si conservi con le generazioni, trasmettendola ai
figli. Un altro motivo ricorrente è l'azione del Signore che ha
fatto “uscire dall'Egitto” il popolo di Israele (4,37), verbo che
ricorre per ben 32 volte nel Deuteronomio. Questa frase nel capitolo
5 viene anteposta al decalogo, come era gia avvenuto al capitolo 20
dell'Esodo e costituisce anche qui la chiave di lettura dei
comandamenti, che vanno letti e interpretati come parole di
liberazione dell'uomo e non in modo chiuso, come spesso avviene nei
nostri catechismi. Il ricordo di essere stati schiavi in Egitto serve
a leggere i comandamenti come strumento per continuare la liberazione
dalle nostre idolatrie che anche oggi ci possono rendere schiavi.
Perciò una lettura dei comandamenti fissa e preordinata, fatta di
domande e risposte non risponde al criterio di movimento e di
liberazione che dovrebbe essere la chiave di comprensione dei
precetti. La chiesa non vuole rimuovere, per usare le parole di
Ortensio da Spinetoli, l'”inutile fardello” della verità
preconfezionata e delle sicurezze precostituite. Per smuovere questa
immobilità occorre avere il coraggio di trasgredire.
Ancora
al cap. 6 ricorre il tema del non dimenticare (in particolare v. 12),
mentre il cap. 7 riprende i passaggi della via della liberazione (v.
7 e sgg.) e le rassicurazioni che il popolo scamperà alle disgrazie
(v. 15) e perciò non dovrà aver paura di affrontare le difficoltà
del cammino di liberazione (vv. 17 e sgg.). Sembra che Dio ce la
metta tutta per amarci, nonostante le nostre manchevolezze. Un
midrash dice che Dio ad un certo punto è stanco perché il patto non
funziona, le trasgressioni da parte dell'uomo sono continue e
costanti. Ma nonostante tutto Dio non ci abbandona e supera il patto
facendo con l'uomo una alleanza senza condizioni. L'ultima parola
della Bibbia è una parola di misericordia. La misericordia non è
nemica della giustizia, ma la integra. L'ebraismo ha superato la
religione sacrificale, cosa che invece non è avvenuta nel
cristianesimo (la messa è ancora intesa come sacrificio).
L'esplorazione
del miracolo della presenza di un Dio che guida l'uomo e lo conduce
verso la salvezza è presente in quasi tutti i libri della Bibbia,
sia pure modulato in vari modi a seconda dei contesti nei quali viene
vissuto: si può dire che esiste un filo conduttore che viene
espresso in vari modi a seconda delle esperienze vissute nei vari
contesti. Ad esempio nel libro della Sapienza si parla (capitolo 14)
della fede dell'uomo che è come una piccola zattera, che nonostante
i continui pericoli, viene condotta alla fine ad un porto sicuro. Il
riferimento è all'arca di Noè che venne salvato da Dio per
ricominciare una nuova umanità (v. 7) liberata dalla schiavitù
dell'idolatria. Anche la nostra vita è una piccola zattera in balia
dei venti (le nostre tentazioni idolatriche) se non ci affidiamo a
Dio che ci ci conduca ad un porto sicuro (mentre la Chiesa ci offre
un transatlantico di sicurezze). Leggere la Bibbia tenendo presente
questo filo conduttore ci fa cogliere più profondamente il
significato delle varie articolazioni che altrimenti rischia di
sfuggirci.
Proseguendo
nella lettura del Deuteronomio, al capitolo 11 si ripete il
ritornello delle azioni che Dio ha fatto per la liberazione di
Israele e che continua a fare dopo la liberazione e l'entrata in
possesso della terra promessa, che si riassumono nella parola “cura”
perchè non vengano a mancare le risorse per vivere bene (11,12 e
sgg.). L'altra parola chiave è “cuore” con il quale si deve
obbedire alla volontà di Dio espressa nella Torà. Infatti
l'obbedienza alla Torà è fatta di amore e perciò considerare i
farisei negativamente come ipocriti osservanti di formalismi inutili
è fuorviante; lo stesso Paolo nelle sue affermazioni negative nei
confronti della legge non ha capito che la legge è da viversi con
amore. La fede ebraica è inconcepibile se avulsa dal contesto del
cammino di liberazione, liberazione del popolo e di ciascun individuo
dalle idolatrie.
Ad
esempio la leggenda dei re Magi che si legge nei vangeli
dell'infanzia di Matteo e Luca esprime la necessità di liberarsi
dalle fissità di una visione troppo ristretta del mondo e di aprirsi
al nuovo. Le narrazioni evangeliche delle guarigioni del cieco e
dello storpio sono storie di liberazione dalla emarginazione sociale.
L'espressione “Figlio di Dio” designa colui che comunica la
libertà all'uomo. Questo processo di liberazione non avviene però
in maniera trionfalistica, ma in piccoli gesti fatti da persone ai
margini, come Gesù e come già i profeti biblici.
Il
capitolo 15 detta prescrizioni di comportamento solidale nei
confronti dei bisognosi, dei poveri ridotti in schiavitù, fondato
sulla memoria di essere stati un tempo, a propria volta, schiavi in
Egitto: la memoria si fa etica.
Nel
capitolo 16 si prescrive la celebrazione della Pasqua in memoria
dell'uscita dall'Egitto, avvenuta in tutta fretta, con sofferenza,
mangiando pane azzimo, “pane di afflizione” (v.3) perché non
c'era tempo per lasciarlo lievitare. Come si è già detto, la
memoria costituisce un filo conduttore di tutta la Bibbia, la memoria
che fa cambiare la direzione alla vita, a differenza del semplice
ricordo che è solo un fatto psichico che non ha un impatto
esistenziale. La memoria è un tema centrale sottostante alle varie
narrazioni che viene ripetuto in modo sempre diverso a seconda delle
varie situazioni della vita, in ciascuno dei ventotto tempi elencati
dal capitolo 3 del Qoelet. Così, ad esempio, le genealogie che a
prima vista paiono elenchi noiosi e privi di significato, nell'ottica
della memoria costituiscono delle storie di fede che indicano che Dio
ci ama e ci accompagna lungo le generazioni nonostante le fragilità
degli uomini.
Al
capitolo 17, i versetti 14 e seguenti dettano prescrizioni per la
scelta del re, istituzione vista con diffidenza per il pericolo grave
di deviazioni, e perciò le regole dettate sono severe, non dovrà
inorgoglirsi ed arricchirsi troppo, dovrà leggere la Torà tutti i
giorni e soprattutto dovrà evitare il pericolo di tornare indietro
per la via che riporta alla schiavitù (v.16). Seguono ancora
numerose prescrizioni volte a garantire la giustizia sociale ed
evitare soprusi, come, ad esempio, le norme riguardanti il pegno dato
per un prestito al povero (24, 10 e sgg.) o quelle che prescrivono di
lasciare i resti dei raccolti per l'orfano, la vedova e lo straniero
(24, 19 e sgg.), comandi che hanno fondamento sul ricordo della
schiavitù d'Egitto (24, 22).
Il
ricordo dei tempi di miseria è essenziale per preservare dalle
tentazioni che minacciano l'uomo in tempi di prosperità, come è
avvenuto per il regno del Nord: quando l'uomo è sazio e vive
riccamente il suo cuore si inorgoglisce e pensa di essere lui
l'artefice di quel benessere, dimenticando che è Dio che da la forza
di operare, così come é stato Dio che ha fatto uscire l'uomo dalla
condizione servile, come è descritto nello straordinario passo del
Capitolo 9, vv. 6 – 20). La psicanalisi ci soccorre per capire
questi passi: mentre l'abbondanza rischia di offuscare la coscienza,
la privazione diventa una risorsa per arricchire la vita. Chi ha
avuto tutto non capisce e non apprezza la vita. La mancanza non è un
vuoto, ma uno spazio di benedizione, un
kairòs,
un'occasione per scoprire dimensioni nuove della vita. Un esempio può
essere quello del venir meno della potenza sessuale nell'età
anziana, che spesso viene vissuta come una tragedia, ma che invece
può diventare l'occasione per scoprire una nuova dimensione
dell'amore, contrassegnata dalla tenerezza.
Il
Capitolo 24, 8.9 danno prescrizioni in caso di lebbra richiamando
l'episodio di Numeri 12 in cui Miriam, sorella di Mosé, venne
colpita dalla lebbra a causa delle critiche proferite contro il
fratello. Qui viene colpito l'atteggiamento di chi non vuol andare
avanti e si volta indietro, così come vengono condannati gli
Amaleciti (25, 17 e sgg.) che hanno posto ostacoli al cammino di
Israele e sono il simbolo del male che impedisce questo cammino.
Il
cap 26 prescrive l'offerta delle primizie a Dio in ringraziamento di
tutto ciò che Israele ha ricevuto da lui dopo l'entrata nella terra
promessa. Il tema del ringraziamento è anch'esso ricorrente nella
Bibbia, specialmente nei Salmi: spesso ci dimentichiamo di tutto ciò
che abbiamo ricevuto nella vita e che tutta la vita è un dono.
Ma
c'è anche il rovescio della medaglia: la disobbedienza ai precetti
che Dio dà comporterà la maledizione dell'uomo ribelle che sarà
colpito dalle stesse piaghe che Dio ha inflitto all'Egitto oppressore
(28,27 e sgg.; 28,60.68) e ritornerà nella condizione di schiavitù
da cui era stato liberato.
L'ultimo
discorso di Mosè contenuto nei capitoli 29 e 30 è nuovamente una
rievocazione delle vicende di liberazione del popolo di Israele dalla
schiavitù di Egitto, un monito a non cedere all'idolatria, ma ad
essere fedele all'alleanza con il Signore e a scegliere la vita come
epilogo del cammino di libertà (30, 15 e sgg.). Infine il libro si
conclude con il ricordo di Mosè dopo la sua morte come il più
grande profeta di Israele per i “segni e prodigi” da lui compiuti
per mandato del Signore (34, 10-12).
Guido Allice