sabato 18 gennaio 2020

APPUNTI PER LO STUDIO BIBLICO

APPUNTI DALLE RIUNIONI DEL GRUPPO BIBLICO DEL 19 DICEMBRE 2019 E 10 GENNAIO 2020 CONDOTTE DA DON FRANCO BARBERO SUL TEMA: “I RACCONTI DI MIRACOLO NELLA BIBBIA EBRAICA”.


Leggiamo il libro del Deuteronomio per cogliere i passi in cui si evidenzia il miracolo di liberazione del popolo eletto ad opera del Signore: fin dal primo capitolo il discorso di Mosè ripercorre la storia della liberazione dalla schiavitù dell'Egitto che ha fasi alterne, di perdita di fiducia in Dio di fronte ai pericoli che si presentano lungo il cammino nel deserto, (1,27) cui si contrappongono parole di incoraggiamento da parte dello stesso Mosè, che riprende espressioni di estrema tenerezza (“il Signore, tuo Dio, ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio, 1,31) che ricorrono spesso nel testo della Bibbia.
Da queste letture emerge un concetto di miracolo diverso da quello che intendiamo tradizionalmente: non più un evento che infrange le leggi della natura e perciò appare come straordinario e meraviglioso, ma una esperienza che tocca il cuore e dà senso alla vita, un avvenimento che viene descritto con un linguaggio immaginifico: Gesù guariva i lebbrosi nel senso che li inseriva nella società dalla quale prima erano esclusi; il miracolo è innanzi tutto un atto di solidarietà e va letto come evento di liberazione. Tutti noi abbiamo le nostre idolatrie dalle quali liberarci trasformandoci da schiavi in figli. Questo è il miracolo.
Al capitolo 4, v.9 ritorna un motivo ricorrente, quello della memoria: non bisogna dimenticare gli eventi di liberazione e bisogna fare in modo che la memoria si conservi con le generazioni, trasmettendola ai figli. Un altro motivo ricorrente è l'azione del Signore che ha fatto “uscire dall'Egitto” il popolo di Israele (4,37), verbo che ricorre per ben 32 volte nel Deuteronomio. Questa frase nel capitolo 5 viene anteposta al decalogo, come era gia avvenuto al capitolo 20 dell'Esodo e costituisce anche qui la chiave di lettura dei comandamenti, che vanno letti e interpretati come parole di liberazione dell'uomo e non in modo chiuso, come spesso avviene nei nostri catechismi. Il ricordo di essere stati schiavi in Egitto serve a leggere i comandamenti come strumento per continuare la liberazione dalle nostre idolatrie che anche oggi ci possono rendere schiavi. Perciò una lettura dei comandamenti fissa e preordinata, fatta di domande e risposte non risponde al criterio di movimento e di liberazione che dovrebbe essere la chiave di comprensione dei precetti. La chiesa non vuole rimuovere, per usare le parole di Ortensio da Spinetoli, l'”inutile fardello” della verità preconfezionata e delle sicurezze precostituite. Per smuovere questa immobilità occorre avere il coraggio di trasgredire.
Ancora al cap. 6 ricorre il tema del non dimenticare (in particolare v. 12), mentre il cap. 7 riprende i passaggi della via della liberazione (v. 7 e sgg.) e le rassicurazioni che il popolo scamperà alle disgrazie (v. 15) e perciò non dovrà aver paura di affrontare le difficoltà del cammino di liberazione (vv. 17 e sgg.). Sembra che Dio ce la metta tutta per amarci, nonostante le nostre manchevolezze. Un midrash dice che Dio ad un certo punto è stanco perché il patto non funziona, le trasgressioni da parte dell'uomo sono continue e costanti. Ma nonostante tutto Dio non ci abbandona e supera il patto facendo con l'uomo una alleanza senza condizioni. L'ultima parola della Bibbia è una parola di misericordia. La misericordia non è nemica della giustizia, ma la integra. L'ebraismo ha superato la religione sacrificale, cosa che invece non è avvenuta nel cristianesimo (la messa è ancora intesa come sacrificio).
L'esplorazione del miracolo della presenza di un Dio che guida l'uomo e lo conduce verso la salvezza è presente in quasi tutti i libri della Bibbia, sia pure modulato in vari modi a seconda dei contesti nei quali viene vissuto: si può dire che esiste un filo conduttore che viene espresso in vari modi a seconda delle esperienze vissute nei vari contesti. Ad esempio nel libro della Sapienza si parla (capitolo 14) della fede dell'uomo che è come una piccola zattera, che nonostante i continui pericoli, viene condotta alla fine ad un porto sicuro. Il riferimento è all'arca di Noè che venne salvato da Dio per ricominciare una nuova umanità (v. 7) liberata dalla schiavitù dell'idolatria. Anche la nostra vita è una piccola zattera in balia dei venti (le nostre tentazioni idolatriche) se non ci affidiamo a Dio che ci ci conduca ad un porto sicuro (mentre la Chiesa ci offre un transatlantico di sicurezze). Leggere la Bibbia tenendo presente questo filo conduttore ci fa cogliere più profondamente il significato delle varie articolazioni che altrimenti rischia di sfuggirci.
Proseguendo nella lettura del Deuteronomio, al capitolo 11 si ripete il ritornello delle azioni che Dio ha fatto per la liberazione di Israele e che continua a fare dopo la liberazione e l'entrata in possesso della terra promessa, che si riassumono nella parola “cura” perchè non vengano a mancare le risorse per vivere bene (11,12 e sgg.). L'altra parola chiave è “cuore” con il quale si deve obbedire alla volontà di Dio espressa nella Torà. Infatti l'obbedienza alla Torà è fatta di amore e perciò considerare i farisei negativamente come ipocriti osservanti di formalismi inutili è fuorviante; lo stesso Paolo nelle sue affermazioni negative nei confronti della legge non ha capito che la legge è da viversi con amore. La fede ebraica è inconcepibile se avulsa dal contesto del cammino di liberazione, liberazione del popolo e di ciascun individuo dalle idolatrie.
Ad esempio la leggenda dei re Magi che si legge nei vangeli dell'infanzia di Matteo e Luca esprime la necessità di liberarsi dalle fissità di una visione troppo ristretta del mondo e di aprirsi al nuovo. Le narrazioni evangeliche delle guarigioni del cieco e dello storpio sono storie di liberazione dalla emarginazione sociale. L'espressione “Figlio di Dio” designa colui che comunica la libertà all'uomo. Questo processo di liberazione non avviene però in maniera trionfalistica, ma in piccoli gesti fatti da persone ai margini, come Gesù e come già i profeti biblici.
Il capitolo 15 detta prescrizioni di comportamento solidale nei confronti dei bisognosi, dei poveri ridotti in schiavitù, fondato sulla memoria di essere stati un tempo, a propria volta, schiavi in Egitto: la memoria si fa etica.
Nel capitolo 16 si prescrive la celebrazione della Pasqua in memoria dell'uscita dall'Egitto, avvenuta in tutta fretta, con sofferenza, mangiando pane azzimo, “pane di afflizione” (v.3) perché non c'era tempo per lasciarlo lievitare. Come si è già detto, la memoria costituisce un filo conduttore di tutta la Bibbia, la memoria che fa cambiare la direzione alla vita, a differenza del semplice ricordo che è solo un fatto psichico che non ha un impatto esistenziale. La memoria è un tema centrale sottostante alle varie narrazioni che viene ripetuto in modo sempre diverso a seconda delle varie situazioni della vita, in ciascuno dei ventotto tempi elencati dal capitolo 3 del Qoelet. Così, ad esempio, le genealogie che a prima vista paiono elenchi noiosi e privi di significato, nell'ottica della memoria costituiscono delle storie di fede che indicano che Dio ci ama e ci accompagna lungo le generazioni nonostante le fragilità degli uomini.
Al capitolo 17, i versetti 14 e seguenti dettano prescrizioni per la scelta del re, istituzione vista con diffidenza per il pericolo grave di deviazioni, e perciò le regole dettate sono severe, non dovrà inorgoglirsi ed arricchirsi troppo, dovrà leggere la Torà tutti i giorni e soprattutto dovrà evitare il pericolo di tornare indietro per la via che riporta alla schiavitù (v.16). Seguono ancora numerose prescrizioni volte a garantire la giustizia sociale ed evitare soprusi, come, ad esempio, le norme riguardanti il pegno dato per un prestito al povero (24, 10 e sgg.) o quelle che prescrivono di lasciare i resti dei raccolti per l'orfano, la vedova e lo straniero (24, 19 e sgg.), comandi che hanno fondamento sul ricordo della schiavitù d'Egitto (24, 22).
Il ricordo dei tempi di miseria è essenziale per preservare dalle tentazioni che minacciano l'uomo in tempi di prosperità, come è avvenuto per il regno del Nord: quando l'uomo è sazio e vive riccamente il suo cuore si inorgoglisce e pensa di essere lui l'artefice di quel benessere, dimenticando che è Dio che da la forza di operare, così come é stato Dio che ha fatto uscire l'uomo dalla condizione servile, come è descritto nello straordinario passo del Capitolo 9, vv. 6 – 20). La psicanalisi ci soccorre per capire questi passi: mentre l'abbondanza rischia di offuscare la coscienza, la privazione diventa una risorsa per arricchire la vita. Chi ha avuto tutto non capisce e non apprezza la vita. La mancanza non è un vuoto, ma uno spazio di benedizione, un kairòs, un'occasione per scoprire dimensioni nuove della vita. Un esempio può essere quello del venir meno della potenza sessuale nell'età anziana, che spesso viene vissuta come una tragedia, ma che invece può diventare l'occasione per scoprire una nuova dimensione dell'amore, contrassegnata dalla tenerezza.
Il Capitolo 24, 8.9 danno prescrizioni in caso di lebbra richiamando l'episodio di Numeri 12 in cui Miriam, sorella di Mosé, venne colpita dalla lebbra a causa delle critiche proferite contro il fratello. Qui viene colpito l'atteggiamento di chi non vuol andare avanti e si volta indietro, così come vengono condannati gli Amaleciti (25, 17 e sgg.) che hanno posto ostacoli al cammino di Israele e sono il simbolo del male che impedisce questo cammino.
Il cap 26 prescrive l'offerta delle primizie a Dio in ringraziamento di tutto ciò che Israele ha ricevuto da lui dopo l'entrata nella terra promessa. Il tema del ringraziamento è anch'esso ricorrente nella Bibbia, specialmente nei Salmi: spesso ci dimentichiamo di tutto ciò che abbiamo ricevuto nella vita e che tutta la vita è un dono.
Ma c'è anche il rovescio della medaglia: la disobbedienza ai precetti che Dio dà comporterà la maledizione dell'uomo ribelle che sarà colpito dalle stesse piaghe che Dio ha inflitto all'Egitto oppressore (28,27 e sgg.; 28,60.68) e ritornerà nella condizione di schiavitù da cui era stato liberato.
L'ultimo discorso di Mosè contenuto nei capitoli 29 e 30 è nuovamente una rievocazione delle vicende di liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù di Egitto, un monito a non cedere all'idolatria, ma ad essere fedele all'alleanza con il Signore e a scegliere la vita come epilogo del cammino di libertà (30, 15 e sgg.). Infine il libro si conclude con il ricordo di Mosè dopo la sua morte come il più grande profeta di Israele per i “segni e prodigi” da lui compiuti per mandato del Signore (34, 10-12).
Guido Allice