Ho volato sopra i fili spinati
di Liliana Segre
Pubblichiamo un estratto del discorso che la senatrice a vita Liliana Segre ha tenuto ieri al Parlamento europeo di Bruxelles.
Comincio
con il ringraziare l’amico David Sassoli che mi ha invitato qui oggi.
Non posso nascondere l’emozione profonda nel vedere le bandiere colorate
di tanti Stati affratellati in questo Parlamento dove si parla, si
discute e ci si guarda negli occhi. Alla giornata del 27 gennaio a volte
è stata data un’importanza che in fondo non c’è. Auschwitz non è stata
liberata quel giorno. Quel giorno l’Armata Rossa vi è entrata ed è molto
bello il discorso che fa Primo Levi ne La Tregua dei quattro
soldati russi che non liberano il campo perché i nazisti erano già
scappati, ma si trovano di fronte a questo spettacolo incredibile.
Uno
spettacolo più tardi incredibile per tutti coloro che lo vollero
guardare, mentre qualcuno non lo vuole vedere nemmeno adesso e dice che
non è vero. Si tratta dello stupore per il male altrui.
Queste
sono le parole straordinarie di Primo Levi e che nessun prigioniero di
Auschwitz ha mai potuto dimenticare. Il 27 gennaio avevo 13 anni ed ero
operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union. Di colpo arrivò il
comando immediato di cominciare quella che venne chiamata “Marcia della
morte”. Io non fui liberata il 27 gennaio dall’Armata Rossa, facevo
parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita
obbligati a una marcia che durò mesi. Quando parlo nelle scuole dico che
ognuno nella vita deve mettere una gamba davanti all’altra, che non si
deve mai appoggiare a nessuno perché nella “Marcia della morte” non
potevamo appoggiarci al compagno vicino che si trascinava nella neve con
i piedi piagati e che veniva finito dalla scorta se fosse caduto.
Ucciso. La forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo
trasmettere ai giovani di oggi. Noi non volevamo morire, eravamo
pazzamente attaccati alla vita qualunque essa fosse per cui proseguivamo
una gamba davanti l’altra, buttandoci nei letamai, mangiando anche la
neve che non era sporca di sangue.
Prima
attraversammo la Polonia e la Slesia, poi fu Germania. Dopo mesi e mesi
arrivammo allo Jugendlager di Ravensbruck. Eravamo solo giovani, ma
sembravamo vecchie, senza sesso, senza età, senza seno, senza
mestruazioni, senza mutande. Non si deve avere paura di queste parole
perché è così che si toglie la dignità a una donna. Giorno dopo giorno,
campo dopo campo, mi trovai alla fine del mese di aprile 1945.
Quanto
era lontano il 27 gennaio, quante compagne erano morte in quella
marcia, mai soccorse perché nessuno aprì la finestra o ci buttò un pezzo
di pane. Non fu solo il popolo tedesco, ma i popoli di tutta l’Europa
occupata dai nazisti in cui abbiamo visto i nostri vicini di casa essere
aiutanti straordinari dei nazisti. In Italia i nostri vicini ci
denunciavano, prendevano possesso del nostro appartamento, anche del
cane se era di razza.
Questa
parola, razza, la sentiamo ancora e allora dobbiamo combattere questo
razzismo strutturale che resta. La gente mi chiede come mai si parli
ancora di antisemitismo. Io rispondo che c’è sempre stato, ma non era il
momento politico per tirare fuori il razzismo e l’antisemitismo insiti
nell’animo dei poveri di spirito. E poi arrivano i momenti più adatti,
corsi e ricorsi storici, in cui ci si volta dall’altra parte. E allora
tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno
più adatto per farsi avanti.
Quando
subito dopo la guerra per caso restai viva e tornai nella mia Milano
con le macerie fumanti, ero una ragazza ferita, selvaggia, che non
sapeva più mangiare con forchetta e coltello, ancora abituata a mangiare
come le bestie.
Ero criticata anche da coloro che mi volevano bene:
volevano di nuovo la ragazza borghese dalla buona educazione. È
difficile ricordare queste cose e devo dire che da 30 anni parlo nelle
scuole e sento ormai come una difficoltà psichica a continuare, anche se
il mio dovere sarebbe questo fino alla morte. Io ho visto quei colori,
ho sentito quelle urla e quegli odori, ho incontrato delle persone in
quella Babele di lingue che oggi non posso che ricordare qui, dove tante
lingue si incontrano in pace. Nei campi era possibile comunicare con le
compagne che venivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti solo
trovando parole comuni, altrimenti c’era solo la solitudine assoluta del
silenzio.
E le bandiere qui fuori di cui parlavo all’inizio mi hanno
fatto ricordare quel desiderio di trovare con olandesi, francesi,
polacche, tedesche e ungheresi una parola comune. In ungherese ho
imparato una sola parola, “pane”. È la parola principale che vuol dire
fame, ma anche la sacralità di una cosa oggi sprecata senza nemmeno
guardare cosa si butta via.
Da
almeno tre anni sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata
non mi danno pace. Non mi danno pace perché da quando sono diventata
nonna, trentadue anni fa, quella ragazzina che ha fatto la “Marcia della
morte” è un’altra persona rispetto a me: io sono la nonna di me stessa.
Ed è una sensazione che non mi abbandona.
È
mio dovere parlare nelle scuole, testimoniare. Ma non posso che parlare
di me e delle mie compagne. Sono io che salto fuori. Quella ragazzina
magra, scheletrita, disperata, sola. E non lo posso più sopportare
perché sono la nonna di me stessa e sento che se non smetto di parlare,
se non mi ritiro per il tempo che mi resta a ricordare da sola e a
godere delle gioie della famiglia ritrovata, non lo potrò più fare.
Perché non ce la farò più. Anche oggi fatico a ricordare, ma mi è
sembrato un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male
altrui. Ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra,
essere come quella bambina di Terezin che ha disegnato una farfalla
gialla che vola sopra i fili spinati. Io non avevo le matite colorate e
forse non avevo la fantasia meravigliosa della bambina di Terezin. Che
la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è un
semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri
nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. E con la loro
responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla
che vola sopra ai fili spinati.
La Repubblica 30/01