Come aveva reagito?
«Come quel padre di Torino: avevo fatto un video è uscito un articolo. Sa cosa mi risposero? Che in stazione c'era un percorso all'esterno che avrei potuto prendere. Ma chi lo aveva visto? E tra l'altro era tutto alla pioggia. Per viaggiare occorre che i percorsi per i disabili siano intuitivi e facili da usare. E non si deve dare per scontato che il disabile sia sempre accompagnato da qualcuno: dobbiamo poterci muovere in autonomia».
«Parecchie. Il problema a volte sono le barriere architettoniche, ma in molti casi sono state abbattute tecnicamente ma non nella sostanza, visto che nella mia esperienza sono tantissimi gli ascensori che hanno dei problemi e non vengono riparati per mesi. E sa cosa succede? Che poche ore dopo la nostra segnalazione vengono aggiustati. Vedrà, lo ripareranno in fretta anche a Torino».
Già fatto, poche ore dopo.
«Ecco, cosa le dicevo? Accade sempre così ed è questo che mi fa arrabbiare: si tratta di superficialità e negligenza. Il denaro per la manutenzione, quando uno vuole, lo trova. Stiamo parlando di poche centinaia di euro per tenere in buono stato degli impianti, mica di comprarne di nuovi. E poi per il reperimento dei fondi io una mia idea ce l'ho: basta usare i soldi delle multe di chi parcheggia sui marciapiedi o nei posti disabili per fare manutenzione. E non solo degli ascensori. Ho visto pedane degli autobus che non si aprivano più perché piene di rami e foglie, da quanto tempo nessuno le guardava?».
Lei ha scelto di parlare in videoconferenza al circolo dei lettori per ragioni logistiche?
«Non sono venuto fisicamente a Torino per problemi miei di salute, ma comunque lo avrei fatto in macchina. Per viaggiare in treno bisogna farlo quando vogliono loro, nell'orario in cui c'è il treno accessibile, prenotando con anticipo l'assistenza e magari alla fine ti mettono in un vagone con le biciclette con 40 gradi senza aria condizionata e a volte nemmeno ti legano con le cinture».
Quale è il messaggio che lei intende lanciare con i suoi scritti?
«L'ultimo libro in realtà sull'intolleranza, soprattutto online, di cui sono stato anche io vittima, ma per il resto alla base del mio lavoro c'è il concetto di vita indipendente. La disabilità non esisterebbe se dessimo a tutti gli strumenti per fare quello che fanno gli altri. La disabilità non è una malattia, ma una condizione che ognuno può provare nella vita se si trova in un ambiente che non è il suo, anche solo se si rompe una gamba. Cercare gli strumenti per affrontare la disabilità è dunque una responsabilità sociale che tocca tutti. Perché a tutti può capitare di averne bisogno».
Si sente ascoltato?
«Dalle persone sicuramente sì ed è importante perché sono le persone che creano una cultura. Le istituzioni ti ascoltano tantissimo durante le campagne elettorali, un po' meno dopo».
la Repubblica 15 febbraio