Quel
normale antisemitismo
“Calpesta
l’ebreo”, scritto per terra all’ingresso della scuola. Per chi
ancora si chiede come sia stato possibile riscuotere, al tempo dei
nostri nonni, un’adesione convinta della maggioranza degli italiani
alle leggi razziali fasciste, la risposta è: guardatevi intorno in
questi giorni.
Il
senso comune si plasma così, fino a trasformarlo in “buon senso”.
Nella mente di chi va in cerca di qualcuno da disprezzare, a cui
negare il riconoscimento di “prossimo”, da ridicolizzare anche
quando sia ridotto a vittima (“Anna Frank brucia”, altra
scritta), l’ebreo ritrova il suo ruolo di simbolo primordiale.
L’abbiamo
sottovalutata, questa epidemia.
Più pericolosa del coronavirus.
Gli
imbrattatori delle scuole di Pomezia – puntuali e tutt’altro che
ingenui – ignoravano probabilmente che ieri pomeriggio all’Ipsoa
sarebbe venuto a parlare un bambino, Gabriele Sonnino, che nel 1943
si salvò dalla razzia del ghetto di Roma perché gli era stato
diagnosticato il “Morbo di K”. Ispirandosi al nome del
feldmaresciallo Albert Kesselring, se l’erano inventato dei medici
coraggiosi del Fatebenefratelli che ricoverarono decine di ebrei,
falsificando le loro cartelle cliniche e misero in guardia le SS
dall’avvicinarsi a quei pazienti “contagiosissimi”.
Una memoria
che dà fastidio tramandare, forse perché, come dice Liliana Segre,
“è molto più facile credere che tutto questo non sia avvenuto”,
piuttosto che “ammettere che un uomo può arrivare a fare cose
indicibili”.
La novità, in Italia, è che abbiamo ricominciato a
sentirci dire “cose indicibili”. E i più giovani rischiano di
farci l’abitudine. L’escalation sapientemente orchestrata di
svastiche e stelle di Davide intimidatorie, marchiate sull’uscio di
persone ebree o presunte tali a mo’ di schedatura, è il segnale di
un’estrema destra consapevole per la prima volta di poter attingere
a un substrato di antisemitismo inconsapevole diffuso tra i
ragazzini. Per i quali la Shoah è stata solo un grande spettacolo
truce, e perciò affascinante. Uno spettacolo nel quale puoi
parteggiare per i “duri” visto che la sociopatia rende incapaci
di riconoscere la sofferenza degli altri, quando non facciano parte
del tuo piccolo gruppo.
La
confusione nell’uso dei simboli è totale, guidata dal senso del
proibito. I tredicenni di Forlì usciti sabato sera con la bomboletta
spray da una festa in pizzeria, hanno tracciato svastiche accanto
alla A di anarchia. Un pastrocchio.
Ma se poi, nella loro ignoranza,
ci hanno aggiunto la parola “ebrei”, è perché sono abituati ad
adoperarla come dispregiativo. Non avviene così già da anni nelle
curve degli stadi di calcio?
Le
serie tv di maggior successo e i videogiochi rispecchiano questo
bisogno di identificarsi nell’eroe negativo, vincente perché
pronto a calpestare l’altro. “Calpesta l’ebreo”, appunto.
Anche il black humor si è inferocito grazie alla propaganda
dall’alto di un cattivismo mascherato da satira. Basta ascoltare
alla radio La
Zanzara per
rendersene conto. Riversandosi tra gli adolescenti, questo veleno
assume connotazioni ancor più esasperate. Basti pensare alla chat
WhatsApp denominata “The Shoah party” in cui decine di minorenni
si scambiavano messaggi razzisti inneggianti al nazismo e al
terrorismo islamico, frammisti a bestemmie, sevizie di animali,
immagini di bambini malati terminali. La sofferenza come spettacolo,
appunto. Il travestimento, perfino il corpo rimodellato e tatuato
come espressione di identità artificiali, maledette, allo scopo di
incutere rispetto. Faremmo un grave errore se ignorassimo il nesso
fra la propaganda antisemita che sta tracimando minacciosamente dal
web sui muri delle nostre città, e le svastiche goliardiche dei
ragazzini cani sciolti.
La fonte cui attingono è la medesima. Così
come la diseducazione di massa che concimano con l’odio per il
diverso: ebreo, africano, arabo, cinese.
Il
vaccino per contrastare questa epidemia sarebbe un rinnovato impegno
scolastico di aggiornamento dello studio della storia. Sfuggendo alle
strumentali intrusioni dei politici che pretenderebbero di equiparare
avvenimenti novecenteschi ugualmente tragici, ma incommensurabili.
Per fare pari e patta. “Parlateci delle foibe”, hanno scritto a
Pomezia, echeggiando l’usurato “Parlateci di Bibbiano”. Ma….
ancora, ci chiediamo: possibile che le forze dell’ordine non siano
ancora riuscite ad acciuffare neanche uno di questi cacciatori di
ebrei?
Gad
Lerner – Repubblica 13/02