giovedì 27 febbraio 2020

L'EPIDEMIA DELL'ODIO


Quel normale antisemitismo

Calpesta l’ebreo”, scritto per terra all’ingresso della scuola. Per chi ancora si chiede come sia stato possibile riscuotere, al tempo dei nostri nonni, un’adesione convinta della maggioranza degli italiani alle leggi razziali fasciste, la risposta è: guardatevi intorno in questi giorni.
Il senso comune si plasma così, fino a trasformarlo in “buon senso”. Nella mente di chi va in cerca di qualcuno da disprezzare, a cui negare il riconoscimento di “prossimo”, da ridicolizzare anche quando sia ridotto a vittima (“Anna Frank brucia”, altra scritta), l’ebreo ritrova il suo ruolo di simbolo primordiale.
L’abbiamo sottovalutata, questa epidemia. 
Più pericolosa del coronavirus. 
Gli imbrattatori delle scuole di Pomezia – puntuali e tutt’altro che ingenui – ignoravano probabilmente che ieri pomeriggio all’Ipsoa sarebbe venuto a parlare un bambino, Gabriele Sonnino, che nel 1943 si salvò dalla razzia del ghetto di Roma perché gli era stato diagnosticato il “Morbo di K”. Ispirandosi al nome del feldmaresciallo Albert Kesselring, se l’erano inventato dei medici coraggiosi del Fatebenefratelli che ricoverarono decine di ebrei, falsificando le loro cartelle cliniche e misero in guardia le SS dall’avvicinarsi a quei pazienti “contagiosissimi”. 
Una memoria che dà fastidio tramandare, forse perché, come dice Liliana Segre, “è molto più facile credere che tutto questo non sia avvenuto”, piuttosto che “ammettere che un uomo può arrivare a fare cose indicibili”. 
La novità, in Italia, è che abbiamo ricominciato a sentirci dire “cose indicibili”. E i più giovani rischiano di farci l’abitudine. L’escalation sapientemente orchestrata di svastiche e stelle di Davide intimidatorie, marchiate sull’uscio di persone ebree o presunte tali a mo’ di schedatura, è il segnale di un’estrema destra consapevole per la prima volta di poter attingere a un substrato di antisemitismo inconsapevole diffuso tra i ragazzini. Per i quali la Shoah è stata solo un grande spettacolo truce, e perciò affascinante. Uno spettacolo nel quale puoi parteggiare per i “duri” visto che la sociopatia rende incapaci di riconoscere la sofferenza degli altri, quando non facciano parte del tuo piccolo gruppo.
La confusione nell’uso dei simboli è totale, guidata dal senso del proibito. I tredicenni di Forlì usciti sabato sera con la bomboletta spray da una festa in pizzeria, hanno tracciato svastiche accanto alla A di anarchia. Un pastrocchio. 
Ma se poi, nella loro ignoranza, ci hanno aggiunto la parola “ebrei”, è perché sono abituati ad adoperarla come dispregiativo. Non avviene così già da anni nelle curve degli stadi di calcio?
Le serie tv di maggior successo e i videogiochi rispecchiano questo bisogno di identificarsi nell’eroe negativo, vincente perché pronto a calpestare l’altro. “Calpesta l’ebreo”, appunto. Anche il black humor si è inferocito grazie alla propaganda dall’alto di un cattivismo mascherato da satira. Basta ascoltare alla radio La Zanzara per rendersene conto. Riversandosi tra gli adolescenti, questo veleno assume connotazioni ancor più esasperate. Basti pensare alla chat WhatsApp denominata “The Shoah party” in cui decine di minorenni si scambiavano messaggi razzisti inneggianti al nazismo e al terrorismo islamico, frammisti a bestemmie, sevizie di animali, immagini di bambini malati terminali. La sofferenza come spettacolo, appunto. Il travestimento, perfino il corpo rimodellato e tatuato come espressione di identità artificiali, maledette, allo scopo di incutere rispetto. Faremmo un grave errore se ignorassimo il nesso fra la propaganda antisemita che sta tracimando minacciosamente dal web sui muri delle nostre città, e le svastiche goliardiche dei ragazzini cani sciolti. 
La fonte cui attingono è la medesima. Così come la diseducazione di massa che concimano con l’odio per il diverso: ebreo, africano, arabo, cinese.
Il vaccino per contrastare questa epidemia sarebbe un rinnovato impegno scolastico di aggiornamento dello studio della storia. Sfuggendo alle strumentali intrusioni dei politici che pretenderebbero di equiparare avvenimenti novecenteschi ugualmente tragici, ma incommensurabili. Per fare pari e patta. “Parlateci delle foibe”, hanno scritto a Pomezia, echeggiando l’usurato “Parlateci di Bibbiano”. Ma…. ancora, ci chiediamo: possibile che le forze dell’ordine non siano ancora riuscite ad acciuffare neanche uno di questi cacciatori di ebrei?
Gad Lerner – Repubblica 13/02