L’audacia che ci è possibile
di Massimo Recalcati
Il
tempo che stiamo vivendo è il tempo di un trauma collettivo, se il
trauma è un evento che spezza violentemente la nostra rappresentazione
ordinaria del mondo introducendo la dimensione angosciante
dell’inatteso, dell’imprevedibile, dell’ingovernabile.
Per
Freud un evento può dirsi traumatico perché non essendo in nessun modo
prevedibile ha reso impossibile qualunque forma di difesa. Nessuno
infatti era preparato a una emergenza come quella che stiamo vivendo.
Uno spartiacque si è scavato tra la nostra vita com’era prima e come
sarà dopo. Già, ma come sarà dopo?
In
un articolo ampio e ricco, pubblicato ieri sulle pagine del nostro
giornale, Alessandro Baricco ci invita con decisione a pensare al tempo
del dopo-trauma. Lo ha fatto evocando la figura dell’audacia. In questo
tempo di crisi acuta essa appare interpretata innanzitutto dai nostri
medici e dal nostro personale sanitario impegnati direttamente sul
fronte tremendo della malattia. Non per spirito di avventura, ma per
necessità, o, se si preferisce, per dovere etico e professionale. È un
esempio notevole di rigore e passione; non indietreggiare di fronte al
male, essere dove sono il dolore e la paura più grande.
Ma
l’invito di Baricco all’audacia trascende il tempo dell’acuzie e anche
quello delle cure mediche. Possiamo limitarci alla prudenza, necessaria
per difendere la nostra vita e quella degli altri al fine di rallentare
la catena del contagio, o possiamo anche cominciare a fare leva
sull’audacia? Si tratta di guardare oltre mentre ancora si è chiusi
nelle nostre case, impietriti dalla paura che, come è noto, non solo
agli psicoanalisti, restringe forzatamente l’orizzonte del mondo. Si può
rispondere in due modi alla lezione potente del trauma: fingere di
tornare a vivere come prima, come se nulla fosse accaduto, dunque
misconoscere la portata catastrofica del suo evento, oppure provare a
trarre dalla questa impensata potenza negativa una forza nuova. Essere
audaci significa per me questo: non misconoscere il trauma, ma prenderlo
come un’occasione potente di trasformazione. La psicoanalisi ne fa un
caposaldo della sua pratica: la crisi più profonda può sempre rivelarsi
come l’occasione straordinaria di una ripartenza. È la cicatrice viva
che riconosciamo in tutte quelle persone che si sono trovate di fronte
al rischio della loro morte o coinvolti in un lungo periodo di
privazione e dolore e che resistendo e sopravvivendo non sono più
riusciti a vivere come prima. Come se l’incontro con la possibilità
concretissima della loro fine avesse esaltato la loro pulsione di vita.
La loro necessità è divenuta quella di voler spendere tutto il tempo che
restava della loro vita per l’essenziale; eliminare il superfluo, gli
ingombri, l’impotenza e l’utopia astratta per coltivare la potenza
vitale dell’essenziale.
Questa
è per me una formula dell’audacia: liberarsi dei pesi che ostacolano il
dispiegamento della forza vitale e scommettere sulla potenza
affermativa di questo dispiegamento. Stiamo sperimentando che è
diventato possibile quello che ritenevamo impossibile. Nel male questo è
avvenuto con l’epidemia. Nessuno poteva immaginare che il mondo potesse
fermarsi e la morte dilagare. E nel bene? Non sono già sotto ai nostri
occhi le formidabili energie creative che si sono mobilitate in risposta
al trauma? Solidarietà, de-burocratizzazione, impresa, flessibilità,
importanza finalmente riconosciuta alla sanità e alla scuola pubblica,
ai beni comuni, eccetera.
La
potenza di quello che sta accadendo non può esaurirsi nella sola
risposta collettiva (necessaria) del distanziamento sociale. Bisogna
anche accorciare i tempi, liberare le forze produttive, favorire
progetti, visioni e azioni inaudite almeno quanto lo è stato, nel male,
il trauma dell’epidemia.
Ogni
trauma esige, infatti, che la ripartenza sia audace perché la sua
potenza negativa possa convertirsi in una opportunità affermativa.
L’impossibile che diviene possibile non deve accadere solo sul piano
angosciante di un dramma totalmente inatteso e sconvolgente che si è
realizzato come il nostro peggiore incubo, ma deve ispirare anche la
dimensione generativa delle nostre scelte future: l’audacia di imprese
collettive ritenute impossibili che diventano finalmente possibili.
La Repubblica 27/3