Vita e morte a confronto
20-03-2020 - di: Domenico Gallo
Le
cifre che ci snocciola ogni sera alle 18 la Protezione civile ci fanno
toccare con mano la dimensione mortifera di questa pandemia. Ci stiamo
avvicinando alla soglia di 500 morti ogni giorno e abbiamo ormai
superato il totale dei decessi che si sono verificati in Cina (circa
3.300) con la differenza che la Cina ha una popolazione di oltre un
miliardo di persone a fronte dei 60 milioni dell’Italia.
Del
resto le simulazioni sviluppate in altri paesi ci forniscono una
dimensione decisamente allarmante. Qualche giorno fa Le Monde ha dato
notizia di uno studio presentato al governo francese il 12 marzo,
realizzato da una équipe di esperti diretta dall’epidemiologo Neil
Fergusson dell’Imperial College di Londra secondo il quale, in assenza
di ogni intervento per contrastare la diffusione del virus, l’epidemia
di COVID 19 potrebbe provocare in Francia da 300.000 a 500.000 morti.
Poche ore dopo il presidente Macron si è presentato in televisione per
annunciare drastiche misure di isolamento sul modello di quelle
italiane.
Negli
Stati Uniti la situazione è molto più grave per l’assenza di un sistema
pubblico e universale di sanità, anche se in apparenza i numeri sembrano
molto più bassi (circa 4.000). La differenza deriva soltanto
dall’assenza di controlli. Dal primo caso (21 gennaio), gli Stati Uniti
hanno testato circa 23 individui per milione di abitanti. In Italia
facciamo più di 800 tamponi e in Corea del Sud circa 3.700 per milione
di abitanti. Ad aggravare un quadro già drammatico, si aggiunge il fatto
che quasi il 30 per cento dei lavoratori – per lo più nei settori
retail, food&beverage, hospitality – e il 69 per cento dei
lavoratori con salario minimo non hanno diritto a un congedo per
malattia (sick leave). È quindi lecito aspettarsi che cittadini non
assicurati, seppur contagiati e sintomatici, continueranno a lavorare,
pur di non rinunciare a un salario, e affolleranno i pronto soccorso
quando il loro stato di salute diventerà particolarmente grave. Il
Center for Disease Control stima un numero di possibili contagi tra 160 e
214 milioni e un numero di morti tra 200mila e 1,7 milioni, scaglionati
per area geografica su un intervallo di tempo di molti mesi. La stessa
agenzia federale prevede da 2,4 a 21 milioni di ospedalizzazioni.
Secondo l’American Hospital Association, nel 2018 nel paese erano
disponibili poco più di 924 mila posti letto e poco più di 92 mila posti
in terapia intensiva. (cfr. Oriana Ciani e Rosanna Tarricone, La salute
è un bene pubblico. Ma non negli Usa). È evidente quindi che ci
troviamo nel mezzo di un disastro naturale globale destinato a incidere
profondamente sulla nostra vita collettiva e individuale come è avvenuto
in altre epoche storiche che sono state segnate dal passaggio delle
pestilenze o piagate dal flagello della guerra.
«Noi
oggi ci troviamo esattamente qui – ha scritto Mauro Magatti su Avvenire
del 18 marzo – sospesi tra la vita e la morte. Tra un passato a cui non
si può tornare, un presente terribile e un futuro che non sappiamo
immaginare. E che potrà essere molto peggiore o molto migliore. Per
andare nella seconda direzione occorre discernere nella situazione che
stiamo vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. In quella
battaglia a cui assistiamo ogni giorno in cui vita e morte si
confrontano a viso aperto».
Oggi
più che mai abbiamo bisogno che la politica faccia delle scelte
cruciali. Abbiamo bisogno di istituzioni collettive robuste che
costruiscano coesione e solidarietà, che attivino cooperazione sul piano
interno e internazionale perché nessuno si salva da solo. Il confronto
fra la vita e la morte si gioca anche sul piano politico. La politica
può scegliere una strada mortifera oppure può affrontare le sfide
globali (epidemie, inquinamento, cambiamenti climatici) facendo ricorso a
una superiore consapevolezza dell’unità del genere umano. La prima
strada è quella della cultura dello scarto espressa in modo plastico dal
darwinismo sociale sposato da Boris Johnson, e dal sovranismo di Trump,
che ha tentato di corrompere un’azienda tedesca per avere un vaccino
nella disponibilità esclusiva degli USA. Sul piano sociale la scelta di
Trump si riflette in quella foto delle persone in fila a Los Angeles per
l’acquisto dei generi di prima necessità in vista delle restrizioni
dell’epidemia. Si tratta di una fila ordinata in cui una quarantina di
persone attendono in modo disciplinato il proprio turno mantenendosi a
distanza di oltre un metro l’uno dall’altra. A differenza di quanto
avviene da noi in Europa la fila non si fa per acquistare la pasta o
l’olio. È un supermercato di armi quello a cui si rivolgono i
consumatori, la fila si fa per acquistare fucili e pistole. È proprio
vero, occorre discernere gli aspetti di speranza da quelli mortiferi: se
vogliamo sopravvivere la politica deve finalmente ritrovare il suo
ruolo di strumento di organizzazione della speranza.
Volerelaluna 20/3