Il rischio adesso è la pandemia della mente
Donatella Di Cesare
Il Manifesto
29.03.2020
Non
è solo un evento epocale, che segna un prima e un poi nella storia. È
anche uno shock collettivo che investe i nostri corpi. Non ne seguiamo
solo le vicende sullo schermo; ne subiamo gli effetti ogni giorno. Il
biovirus assassino, invisibile e incomprensibile, che toglie il respiro e
provoca una morte orribile, intacca anche la vita quotidiana in mille
modi.
Al panico
iniziale, esorcizzato sui balconi, è subentrato un senso di mestizia, di
stupefatta e amara rassegnazione. Decreto dopo decreto tutto è andato
rallentando, fino a fermarsi. Non è mai accaduto: un’intera nazione agli
arresti domiciliari. E sarebbe anche la maggioranza dei “privilegiati”
rispetto a tutti coloro che sono costretti a lavorare in queste
circostanze drammatiche: medici, infermieri, lavoratori di supermercati,
rider, autisti, autotrasportatori, ecc.
Mentre
si comincia ad affrontare il tema della recessione economia, ormai alle
porte, si continuano a discutere gli aspetti più politici di questa
crisi, cioè la gravità dello stato d’emergenza, la pericolosità delle
«misure» adottate. Si toglie margine di movimento promettendo, anzi,
garantendo l’immunizzazione al cittadino-paziente che, più o meno di
buon grado, accetta perciò tutte le regole igienico-sanitarie. Così
funziona quest’inedita forma di democrazia immunitaria.
Ma
per quanto tempo? E con quali effetti? C’è un’altra emergenza di cui
finora non si è quasi parlato ed è l’emergenza psichica. Quasi fosse un
tabù, un argomento da rimuovere, è rimasta ai margini del dibattito
pubblico. A proposito dei test diagnostici, e più in generale della
cura, già diversi esperti, virologi, medici e tecnici ministeriali hanno
ammesso le falle della sanità sul territorio, lasciato quasi
esclusivamente nelle mani dei medici di base. E si sa a quale prezzo. Il
problema, però, non è solo il corpo.
Il
rischio degli arresti domiciliari di massa, un’esperienza mai vissuta
prima, è una enorme implosione psichica che verrà a squarciare il
silenzio spettrale di questi giorni. La vita di molti è cambiata
dall’oggi al domani. Il nulla sembra inghiottirla. Il lavoro, le
attività di sempre, quella routine frenetica – tutto è improvvisamente
sospeso. Sono paralizzate le relazioni umane.
Amici,
parenti, conoscenti non sono che voci lontane, volti filtrati da
schermi. Certo, meno male che disponiamo di questi mezzi tecnici, senza i
quali l’isolamento sarebbe ancora più gravoso e insopportabile.
Bisogna
riconoscere che gli effetti letali del coronavirus non sono purtroppo
solo le morti, ma anche l’imposizione della distanza con tutto quello
che porta con sé: tristezza, rabbia, senso di impotenza, frustrazione,
solitudine, insonnia, angoscia, depressione. L’epidemia è psichica. E ha
proporzioni imponderabili.
Non
è detto che a soffrire le conseguenze della segregazione siano solo i
sofferenti psichici. Le situazioni possono essere disparate. C’è la
famiglia numerosa costretta in uno spazio ristretto e il single
prigioniero del suo monocamera; lo studente che rimpiange l’aula
universitaria e l’anziano definitivamente separato dal mondo. Non tutti
hanno i mezzi per affrontare l’angustia dello spazio, per elaborare
l’angoscia.
E non
deve stupire in un paese che ha investito così poco nella cultura, che
ha disabituato i cittadini alla lettura. Insieme al cibo bisognerebbe
portare un libro. E magari riaprire le librerie.
Sebbene
il sistema sanitario nazionale sia letteralmente sopraffatto, dovrà
tuttavia guardare agli effetti della distanza relazionale, prima che la
violenza mieta le sue vittime, a cominciare dalle donne e dai più
deboli. Consulenti psichiatri? Iniziative culturali, che siano però di
massa?
Questo paese ha la grande tradizione basagliana nella psichiatria a cui è venuto il momento di attingere.
Si
resta immuni, se si accetta di essere segregati. Questa è l’epidemia
psichica del coronavirus. Uno shock virale che potrebbe essere
devastante se non è affrontato nel segno della solidarietà. Per i
neosegregati sarà forse questa la chance per riflettere sulla condizione
dei detenuti nelle carceri.