mercoledì 25 marzo 2020

UNA DOCUMENTAZIONE RAGGELANTE

Psichiatria, il tempo delle camicie di forza
Nel numero di marzo di Le Monde diplomatique compare questo studio che analizza la psichiatria francese in questi ultimi anni.
L'abbandono della visione umanista della follia e della cura, che si era sviluppata nel dopoguerra, ha fatto precipitare la crisi della psichiatria. 
È tornato il tempo della contenzione e dell'isolamento e sempre più spesso si assiste a gravi violazioni dei diritti dei pazienti. Il personale ospedaliero reclama dei mezzi per porre fine ai maltrattamenti.
La scienza non è in grado di fornire una spiegazione globale della follia. Anche la psichiatria statunitense lo riconosce. Lo testimonia un recente articolo dei ricercatori Caleb Gardner e Arthur Kleinman, pubblicato sulla prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine. «Le nuove scoperte nel campo della genetica e delle neuroscienze sono entusiasmanti, scrivono, ma sono ancora molto lontane dall’offrire un aiuto reale alle persone in carne e ossa negli ospedali, nelle cliniche e negli ambulatori. Data la complessità degli esseri umani, questo scarto non sorprende». 
E per essere chiari aggiungono: «La psichiatria biologica non è riuscita finora a produrre un modello teorico completo di un disturbo psichiatrico maggiore» (7). Nel 2013, l'ultima versione della Bibbia della psichiatria statunitense, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dms-5), ha sostituito quella del 2000, con la speranza che vi potessero figurare i marcatori della schizofrenia. Niente di fatto. Da un lato, si vorrebbe che la scienza spiegasse tutto; dall'altro, non riesce a risolvere nulla, il che alimenta la paura e i comportamenti arcaici nei confronti della follia.
La paura arcaica del folle
Dopo la faccia scientista, la faccia gestionale. Per decenni, la malattia mentale è stata considerata un peso finanziario: non si «ripara» un lavoratore affetto da schizofrenia. Perché, allora, spendere così tanti soldi quando il «ritorno sull'investimento» è poco probabile? Di conseguenza, nel corso degli anni la psichiatria è stata riorganizzata. Per esempio, si è assistito a un crescente ritorno all'accettazione per patologia - mentre in precedenza la psichiatria di settore, prima di fare una diagnosi, riceveva delle persone, qualunque fosse la loro condizione. 
Allo stesso modo, le strutture sono state fuse per «mutualizzare» le risorse, creando dei «centri territoriali» necessariamente più affollati e… più lontani dai pazienti. La gestione della crisi del paziente è stata affidata all'ospedale, il che ha portato alla politica del laccio emostatico: ospedalizzazione, dimissioni sempre più rapide, ritorno qualche tempo dopo e così via... La «gestione» dei malati cronici, invece, è stata sempre più affidata alle associazioni. Si sta cercando di ricorrere anche ai medici di famiglia.
I direttori delle strutture non sono più psichiatri, ma manager, dei «capi», come ha affermato Nicolas Sarkozy in un discorso pronunciato in un ospedale di Antony nel 2008, quando era presidente della Repubblica. 
Come si può curare, nel senso umanistico del termine, se l'istituzione si disinteressa dell'assistenza e si dedica solo alla gestione finanziaria? Il delirio gestionale sta soffocando il personale, che non ce la fa più a passare il tempo a inserire dati senza sapere bene a cosa servono. Tutto tempo che non possono trascorrere con i loro pazienti.
Infine, c’è la faccia della sicurezza. La pericolosità è tornata in superficie. Nel suo discorso di Antony, Sarkozy ha insistito sulla pericolosità dei malati di mente. «Il mio dovere, ha detto al personale presente, è anche quello di proteggere la società e i nostri connazionali» - i suoi successori, d'altronde, - non lo hanno contraddetto. Le conseguenze di questo approccio sono state spaventose. Da un lato, sono stati sbloccati 70 milioni di euro per la realizzazione di sistemi di sicurezza, l'assunzione di vigili e la creazione di nuove camere di isolamento. Cosa ancora più grave, i malati di mente sono ormai considerati delle persone di cui diffidare, in preda a «esplosioni di violenza imprevedibili e improvvise», secondo le parole dell'ex presidente. Questo non ha fatto che rafforzare la paura arcaica nei confronti delle «folle».
Ormai, quando qualcuno arriva in ospedale, una volta placata la crisi a colpi di iniezioni gli si chiede qual è il suo «progetto di vita». Sarà poi pregato di fare lo sforzo di «rimettersi in sesto» realizzando questo progetto. Se non ci riesce - ed è il caso della maggior parte dei pazienti, soprattutto se soffrono di una patologia grave -, se è «inadeguato», come dicono i dirigenti quando parlano di questi malati, andrà ad aggiungersi a quelli che devono essere monitorati. Non siamo più nel campo dell'assistenza, ma in quello della gestione della popolazione.
Scientismo e psichiatria farmaceutica, abbandono e reificazione del paziente, delirio gestionale, miseria materiale, fine della riflessione sulla follia... tutto questo porta a una perdita di senso. Gli operatori si sentono impotenti e non sanno più per quale motivo lavorano; gli interni non scelgono più la psichiatria; altri preferiscono accontentarsi della libera professione. I processi di banalizzazione del male che portano alla barbarie e agli orrori denunciati da Hazan sono sotto gli occhi di tutti.
Questa è la crisi del nostro mondo. Non si tratta solo dei folli. Il loro statuto, come sempre, fornisce un indicatore di ciò che accade nel profondo della società. La negazione dell'essere umano è all'opera e sta aprendo un abisso davanti a noi. 
Come ha scritto il filosofo Henri Maldiney, «l’uomo è sempre più assente dalla psichiatria, ma in pochi se ne rendono conto perché è sempre più assente anche dall'uomo (8)».
(Traduzione di Federico Lopiparo)