Marco Revelli
Non
è vero che “niente sarà più come prima”, dopo il coronavirus. Sono
tanti, troppi, quelli che già ora, in piena emergenza, lavorano
febbrilmente perché tutto torni a essere “come prima”. Peggio di prima.
Sono quelli che hanno preparato il disastro, e che sgomitano per
continuare a governarlo sulle stesse “linee guida”, con gli stessi miti,
a difesa degli stessi interessi. Sono i testardi che anche dopo
l’evidente fallimento dei loro feticistici dogmi, generatori del caos in
cui siamo precipitati, si danno da fare per confermarli quei dogmi,
rafforzati dal potere coattivo dello “stato d’eccezione”.
Li
vediamo ogni giorno, tra noi, contro di noi, attivi e ben visibili pur
nel confinamento domestico del resto della popolazione. A invocare,
intimare, pretendere. Sono le migliaia di imprenditori che si affollano a
chiedere la “riapertura” senza neppure aver mai veramente “chiuso”,
imponendo ai propri dipendenti – come a post-moderni servi della gleba –
di rischiare la pelle per loro. E prolungando così, nell’emergenza, il
modello dispotico di relazioni industriali che avevano praticato nella
precedente perversa normalità.
Sono
i “Signori dell’Europa”, i governanti dell’Asse del Nord, quelli che in
nome dell’austerità hanno imposto i tagli alla sanità che hanno
sguernito le difese essenziali in metà del continente – facce di pietra e
braccini corti –, ancora ieri, oggi, nel pieno dell’”infuriar del
morbo”, a predicare rigore nei conti e negare ostentatamente e
ostinatamente l’ossigeno necessario per vivere a sistemi economici e
finanziari già prima all’asfissia. Hanno guidato l’Europa contro i suoi
popoli, la vogliono vedere piegata e in rovina pur di salvare i loro
modelli matematici “made in Chicago”.
Sono
i politici da strapazzo che hanno costruito il proprio consenso a suon
di retoriche e boutades, e che continuano ancora oggi a vivere di
battute al momento giusto e colpi di teatrino, indifferenti alle
possibili ricadute “mortali” delle loro sparate su messe pasquali,
riaperture immediate, o “immunità di gregge”, candidandosi a guidare il
mondo di domani con lo stesso stile acefalo del loro ieri.
Così
a Torino è tornato fuori quell’Alberto (che di nome fa Corrado), già
tra i promotori con le “madamine” della mobilitazione di un anno fa (e
sembra un secolo) a favore del TAV, per invocare, senza traccia di
pudore, che la “Ripartenza” – la chiama così – sia all’insegna dello
“spirito SI-TAV” (“Per uscire dalla crisi ricreiamo lo stesso spirito
con cui sbloccammo la TAV”, recita il titolo a tutta pagina di
Repubblica Piemonte). Senza che nessuno tra gli addetti all’informazione
gli ricordi che col denaro già buttato in quel buco inutile e dannoso
si sarebbe potuto tenere in piedi buona parte del sistema sanitario
regionale che invece sotto l’urto dell’epidemia è collassato costando la
vita a migliaia di persone. E che con il costo di un centimetro di
quell’opera maledetta (1.587,12€) si potrebbe pagare lo stipendio di un
infermiere delle terapie intensive, mentre con quello di 500 metri
(79.356.000 Euro) si potrebbe costruire un ospedale da 300 posti letto.
E
così, a Berlino, è tornato fuori quel Wolfgang Schäuble che nel 2015
aveva condannato a morte la Grecia imponendole l’umiliazione letale del
Memorandum, e che ora si mette di traverso sulla questione dei
“coronabond” pretendendo che si passasse, per ricoprire i debiti
dell’emergenza sanitaria dei Paesi mediterranei, per le forche caudine
del MES, che riproporrebbe oggi lo stesso tallone di ferro che costò al
tempo vita e salute a migliaia di pensionati ellenici. Riemerso dalle
nebbie del Bundestag al cui vertice era stato “confinato”, l’ex ministro
di ferro delle finanze tedesche tira dritto, come se niente stesse
succedendo, sulle rovine dell’Europa dettando la legge del più forte in
cui lui, e i tanti come lui nel mondo del privilegio europeo, hanno
sempre creduto.
E
ancora, e infine – per completare il museo degli orrori – che dire di
Matteo Renzi che s’infila nella fessura stretta aperta
dall’appiattimento della curva dei contagi per decretare – come fosse
ancora quello del ‘14 – che “Dopo Pasqua l’Italia deve ripartire”; e
dell’altro Matteo, suo simmetrico, che sfoderando un immaginario
tendenzialmente criminale, invoca, anche lui per Pasqua, l’apertura
delle chiese perché “abbiamo bisogno dell’aiuto della madonna” (sic).
Azzardo degno di quello del suo sodale Fontana che nella fase caotica
della crisi sanitaria lombarda fece trasferire i positivi al virus nelle
Case di riposo per anziani, con mossa da piromane in una raffineria, o
da maestro degli untori milanesi. Anche loro, tutti insieme,
s’immaginano leader del prossimo futuro…
E
in effetti, a guardarne il curriculum e il palmarés, soli non sono. Né
così ai margini come meriterebbero. Corrado Alberto è il Presidente
dell’Api, rappresenta le piccole industrie, quelle che in questo momento
premono di più e fanno più lobbying per la “riapertura” contro
scienziati e buon senso (sulla seconda pagina de “La Stampa”: La curva
dell’epidemia inizia a scendere. Gli esperti ”Massima cautela o
ripartirà”, in terza: Dal governo un passo verso a fase 2. Le industrie
si preparano a riaprire). Sono circa 71.000 (70.927 per la precisione)
le aziende che hanno fatto richiesta in deroga ai prefetti, motivandole
col fatto che sono legate alle “filiere essenziali”. Di queste quasi
5.000 sono in Piemonte (4.644), più del triplo in Lombardia (16.740) e
in Emilia Romagna (15.980), il doppio in Veneto (10.600). “Repubblica”
ci dice che il 67% sono “nelle regioni più colpite dal virus”, e forse
un nesso tra la mortalità delle persone in queste regioni e il vitalismo
esasperato del loro tessuto industriale c’è o dovrebbe essere
individuato…
Wolfgang
Schäuble, per parte sua, non fa altro che riproporre il pensiero del
Governatore della sua Banca centrale Jens Weidemann che alla vigilia
dell’Eurogruppo ha ribadito come un’apertura di credito attraverso il
Meccanismo europeo di stabilità resta la sua opzione preferita
aggiungendo, con un notevole sense of humor che essa “potrebbe essere
offerta a condizioni più agevoli in questo periodo di emergenza per
dimostrare la necessaria solidarietà tra i membri della zona euro”. E’
stato lui, e quelli come lui – il finlandese Olli Rehn, il danese Lars
Rohde, l’austriaco Robert Holzmann – a spingere la governatrice della
Bce Martine Lagarde alle famigerate dichiarazioni nella conferenza
stampa del 12 marzo sull’indisponibilità dell’Eurotower a interventi di
sostegno per i paesi più colpiti dall’epidemia (“Non siamo qui per
mitigare gli spread”), interpretate impropriamente come una gaffe quando
in realtà altro non erano che l’esternazione, certo un po’ sgradevole
ma fedele, del pensiero degli “azionisti di riferimento”. L’austriaco
Holzmann, d’altra parte, negli stessi giorni, si era spinto a definire
una “purificazione” (reinigung in tedesco) l’eliminazione dal mercato
dei soggetti economici più deboli per effetto della crisi indotta dal
virus, dopo che una politica del credito troppo generosa li aveva
indebitamente conservati in vita: dunque una sorta di selezione
darwiniana da cui gli altri sarebbero usciti “più forti”. E quella – se
non ce ne fossimo accorti -, nella sua brutalità rivelata dalle
circostanze tragiche del momento, è l’arriére pensée di tutti fautori
del paradigma ultra-liberista che ha imposto il disegno delle nostre
società nell’ultimo quarto di secolo. La “metafisica influente” sottesa
all’ideologia dominante ormai da tempo, che ha preparato la malattia
sociale su cui si è innestata la malattia biologica che oggi imperversa.
Quanto
ai demagoghi nostrani, infine, non sembrano molto diversi dagli altri
leader populisti di ultima generazione del mondo, dai Boris Johnson, dai
Donald Trump, dallo stesso Bolsonaro, tutti caratterizzati – una sorta
di comun denominatore – da un approccio contraddittorio e dissennato,
sostanzialmente irresponsabile al virus, come ossessionati più dai
vantaggi “retorici” che potessero assicurarsi con atteggiamenti
popular-populisti nel discorso dall’emergenza, che da un qualche senso
di responsabilità decisionale e operativa di fronte ai rischi per la
vita delle persone. Hanno oscillato tutti tra forme “machiste” di
sottovalutazione e sfida di fronte al virus (quasi fosse un nemico da
sfidare o umiliare: “è poco più che un raffreddore”, “non mi fa paura”) e
sue improvvise drammatizzazioni (chiudere tutto, porti e aeroporti,
blindarsi dentro, dar la caccia agli untori soprattutto se stranieri,
guai alla Cina, ecc.), tra teorizzazioni di disumane “immunità di
gregge” in stile iperliberista (selezione naturale, laissez faire
laissez passer, non si scambia la libertà per la salute, ecc.) e di
primati dell’economia che non si lascia frenare da misure di sicurezza
“collettiviste” e che deve, costi quel che costi, “ripartire”. Escono,
tutti, da questa prova malissimo, se prevalesse una minima forma di
giudizio razionale, e tuttavia si candida, tutti, come se fossero i
migliori players su piazza, a governare il futuro sapendo di essere – la
storia insegna – i veri utilizzatori finali di ogni “stato
d’eccezione”.
Per
questo non possiamo illuderci che la semplice “forza delle cose” produca
il cambiamento. Che il virus – per una qualche eterogenesi dei fini –
induca quel rovesciamento di valori e poteri che non avevamo saputo
produrre. Sarà tutto “come prima”. Anzi, “più di prima”, nel senso di
“peggio di prima”, con gli eroi di oggi – i medici, gli infermieri, i
lavoratori manuali, gli addetti alla logistica, quelli che hanno
permesso a tutti noi di sopravvivere – rimessi al loro posto, al fondo
della piramide sociale, e gli altri, i furbi di sempre, quelli che
avranno saputo approfittare dei mali degli altri dopo averli provocati,
di nuovo sulla cima. Al passivo motto – al motto tipico delle
“rivoluzioni passive” – che ripete come un organetto rotto che “niente
sarà come prima” dobbiamo sostituire l’opposto, attivo e progettuale
proposito: “niente deve essere più come prima”.
Volerelaluna 10/04