L’orrore dei Balcani venticinque anni dopo.
I criminali di allora sono star nazionaliste.
di Fabrizio Ravelli e Andrea Rizza Goldstein
Venticinque
anni fa cominciava il genocidio di Srebrenica, il massacro sistematico
di 8.372 uomini e ragazzi musulmani bosniaci che sarebbe proseguito per
diversi giorni.
Oggi, per le limitazioni imposte dal Covid che anche in
Bosnia colpisce duramente, le celebrazioni saranno meno affollate del
solito. Ma migliaia di persone si ritroveranno comunque al Memoriale di
Potoari, nove corpi identificati nel corso dell’anno avranno sepoltura
aggiungendosi ai 6.600 che già stanno sotto la distesa di cippi bianchi.
I venticinque anni, un quarto di secolo, avranno una celebrazione in
forma limitata.
Ciò che però annichilisce, nel clima politico e sociale
di questo Paese, è che il riconoscimento di quello che accadde, il
confronto fra sterminatori e vittime, e quel che si chiama oggi
confronto con il passato, non stanno facendo passi avanti. Anzi,
tutt’altro. I due maggiori responsabili, il premier serbo-bosniaco
Radovan Karadži? e il comandante militare Ratko Mladi?, sono in galera.
Ma il genocidio di Srebrenica, a lungo negato dai leader della Republika
Srpska, la repubblica dei serbi di Bosnia, poi ammesso, poi di nuovo
negato, ora da molti è rivendicato.
Dragan
Bursa?, professore di filosofia e giornalista, venticinque anni fa era
un soldato semplice nella VRS, l’esercito serbo-bosniaco, aveva 20 anni
nel 1995. Oggi è uno dei più fieri oppositori del negazionismo nella
Republika Srpska. «Senza poter generalizzare, diciamo che esiste un
pensiero unitario secondo il quale il genocidio di Srebrenica non è
avvenuto - dice - . Ma oggi c’è di peggio, questa matrice culturale vive
in una narrativa terribile che sostanzialmente recita: ‘A Srebrenica il
genocidio non c’è stato, e Dio voglia che si possa ripetere tre volte’.
La negazione del genocidio ha raggiunto un nuovo livello, e cioè
l’affermazione del genocidio come qualcosa di ‘buono’, come una ‘buona
pulizia’, come ‘buon sangue’». Perché questo accade? «La colpa è
dell’opinione pubblica dominante a Belgrado e anche a Banja Luka che non
solo ha negato il genocidio, ma che degli esecutori, da quelli ai
livelli più bassi fino a quelli che lo hanno organizzato, ha fatto degli
eroi nazionali.
Questi criminali sono il jolly che ti fa vincere le
elezioni, locali e nazionali, in Republika Srpska e in Serbia. Questi
criminali appaiono sui cartelloni pubblicitari, e vengono usati come
testimonial con nomi e cognomi per vincere le elezioni».
«Mi
aspettavo di commemorare il venticinquennale del genocidio in un altro
modo - dice Nataša Kandi?, avvocato dell’Humanitarian Law Center di
Belgrado - . Che tutte le fosse comuni sarebbero state ritrovate, che
non ci sarebbero state più madri che devono ancora seppellire i propri
figli, che non ci sarebbe stato il negazionismo e che in tutta la
regione, prima di tutto in Serbia ma anche in Republika Srpska, avremmo
accettato di considerare quello che è successo a Srebrenica, che avremmo
riconosciuto e accettato i fatti dimostrati dai tribunali. Oggi invece,
quando parliamo di questo, ho paura che siamo distanti dalla giustizia
di transizione, dall’empatizzazione e solidarietà con le vittime,
lontani come non mai prima di oggi». Eppure, dice, ci sono stati momenti
importanti sulla strada della riconciliazione: «Nel 2004 l’allora
governo della Republika Srpska ha pubblicato un report con i nomi di
oltre 8 mila uomini e giovani musulmani, della cui morte sono
responsabili l’esercito e la polizia della Republika Srpska. In questa
relazione c’erano anche i nomi di oltre 22 mila membri delle forze
armate che si trovavano sul terreno. Tuttavia 11 anni dopo il governo ha
deciso di annullare questo report, sostenendo che era il risultato di
pressioni politiche, di un complotto internazionale».
Negare
il genocidio è follia. A Tuzla funziona dal 1999 un centro di
identificazione, diretto da una caparbia antropologa forense che si
chiama Dragana Vu?eti?. «Con l’analisi del Dna abbiamo identificato l’80
per cento delle persone scomparse, circa 6.700. La maggior parte delle
persone è stata inumata in fosse comuni primarie che qualche mese dopo
sono state scoperchiate e i resti umani, con bulldozer e ruspe, sparsi
in altre fosse comuni secondarie. È successo che parte di una persona
restava in una fossa, e altre parti finivano altrove. Questo ha reso
difficile il processo di identificazione. E ricordiamo che ancora circa
mille persone sono considerate scomparse e i resti non sono stati
trovati. Ma ci proveremo ».
E
poi ci sono quelli che tentano di ricostruire la memoria, a convivere
con gli avversari, a superare i muri. Amra Nali? è un’attivista di Adopt
Srebrenica, un’associazione di giovani (musulmani e serbi insieme) che
da dieci anni ci prova. «Raccogliamo fotografie, l’unica prova e l’unico
ricordo che queste persone erano vive, l’unico collegamento con le
famiglie delle vittime, con i bambini che non ricordano i propri
genitori uccisi, perché nel luglio 1995 erano troppo piccoli.
Conserviamo il ricordo e lo preserviamo dall’oblio».
C’è
chi, bambino sfollato allora, è tornato a vivere a Srebrenica. Il che
significa vivere fianco a fianco con qualcuno che ha collaborato
all’uccisione dei tuoi. Muhamed Avdi?, anche lui militante di Adopt
Srebrenica, non ha mai rivisto il padre. «Siamo solo venuti a sapere che
quando Srebrenica è caduta era stato catturato. Poi il tribunale
dell’Aja ha ricostruito che mio padre aveva cercato salvezza in Serbia,
ma i serbi lo hanno riconsegnato ai criminali. Così, alla fine, ho
incontrato l’ex militare serbo-bosniaco che ha preso in consegna mio
padre. Non ero guidato dalla vendetta. Mi ha detto che gli era stato
ordinato e che non si sente responsabile. Va bene, gli ho detto, ma
l’hai preso in consegna e lui oggi non è vivo, questo ti è indifferente?
Non ti sentiresti meglio se fosse vivo? Mi ha dato ragione,
istituzionalmente non si sente responsabile, ma come uomo sì».
la Repubblica 9/7