L’amore "efficace" di Camilo Torres
Intervista a Giorgio Barberis
Alberto Deambrogio intervista Giorgio Barberis, curatore di una riedizione di Liberazione o morte! di Padre Camilo Torres
www.transform-italia.it (03/02/2021)
Giorgio Barberis (Alessandria 1974) è professore di Storia del pensiero politico e presidente del Corso di Laurea di Scienze Politiche, economiche, sociali e dell’amministrazione presso l’Università del Piemonte Orientale. È autore dei volumi Il regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève [Napoli 2003], Sulla fine della politica [Milano 2005, con Marco Revelli], Louis de Bonald. Ordre et pouvoir entre subversion et providence [Paris-Perpignan 2016] e di numerosi saggi nell’ambito della storia e della filosofia contemporanee. Con Francesco Ingravalle, docente di Storia delle Istituzioni presso il medesimo Ateneo, ha curato l’introduzione di una nuova edizione di Liberazione o morte! di Camilo Torres Restrepo, uscito per i tipi di Oaks editrice alla fine dell’anno appena trascorso.
Intorno a questa pubblicazione Giorgio Barberis ha accettato di rilasciare l’intervista che segue e per questo lo ringraziamo.
A.D.: Giorgio, con la vostra prefazione avete dato un contributo importante a rimettere in circolo il pensiero di Torres dopo la lontana prima pubblicazione da Feltrinelli. Un libro, Liberazione o morte!, che qualcuno potrebbe giudicare inattuale. Quali sono state le motivazioni di fondo che vi hanno spinto a lavorarci su?
G.B.: La risposta è necessariamente articolata. Da un lato, volevamo proprio contribuire a reintrodurre nel dibattito culturale e politico una figura di straordinario interesse come quella di Camilo Torres, nel contempo brillante sociologo e sacerdote impegnato concretamente – nella Colombia degli anni Sessanta, attraversata da oscene disuguaglianze – in difesa dei poveri, fino alla scelta estrema della lotta armata, con l’arruolamento nella formazione guevarista dell’Ejercito de Liberacion Nacional. E il volume che ripubblichiamo oggi, Liberazione o morte!, uscito per la prima volta nel 1968 (a due anni dall’uccisione in uno scontro a fuoco del “prete col fucile”) è un’antologia ben strutturata di alcuni importanti testi di Torres. Dall’altro lato, volevamo ricostruire, seppur sommariamente, l’impatto che la sua scelta e i suoi scritti hanno avuto nell’Italia di quegli anni, sui contrapposti fronti ideologici. Infine, vi è una considerazione più generale a fondamento del nostro lavoro. Le emergenze e le crisi che segnano il tempo inquieto che stiamo vivendo ripropongono con urgenza la questione (mai risolta, invero) della giustizia sociale. Le oligarchie continuano a dominare, e l’ingiustizia ci sfida quotidianamente. Come dobbiamo rispondere? Che cosa dobbiamo fare? Non si può trascurare il fatto che una delle poche voci internazionalmente autorevoli sia proprio quella del Papa cattolico. Si comprende allora, in tale contesto, la grande attualità di un libro apparentemente “inattuale”: di fronte all’ingiustizia estrema come si deve reagire? In particolare, come deve reagire chi ha fede nel messaggio di Cristo? E anche su quel messaggio, c’è ancora molto da dire..
A.D.: L’incontro tra marxismo e cristianesimo non è stato mai troppo facile, anche se ha dato risultati originali e preziosi. Nel tempo abbiamo assistito a chiusure, troppo facili liquidazioni, incomprensioni. Eppure se pensiamo al Marx che dichiarava più importante il movimento reale rispetto ai programmi sulla carta o, per altri versi, al Gutierrez che criticava la teologia europea astratta e deduttiva a favore di una che partisse dalla prassi storica orientata ai poveri, rileviamo convergenze possibili. Il primato sta non nell’ortodossia teorica, bensì nell’ “ortoprassi”. Qual è secondo te il particolare contributo che Torres ha dato su questo terreno? Lui parlava di “amore efficace”…
G.B.: La questione è ben posta: mi convince questa idea di una orto-prassi che avvicina le istanze del marxismo e del cristianesimo autentico. Ricordo spesso, come faceva don Andrea Gallo – per me un maestro e un amico molto caro – l’affermazione di Hélder Câmara, arcivescovo di Olinda e Recife, e tra i fondatori della Teologia della Liberazione: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Le convergenze ci sono anche sul piano teorico, e vi è una robusta tradizione filosofica che ritrova un cuore teologico nel materialismo storico. Una convergenza più viva che mai negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Basti citare, a titolo paradigmatico, gli studi di padre Giulio Girardi. Ma nel continente iberoamericano, più che la teoria, è la concreta struttura dei rapporti sociali ed economici, con la gestione predatoria delle ricchezze da parte di un’oligarchia inscalfibile, nonché le continue ingerenze statunitensi, a creare le condizioni “materiali” per l’incontro, su una piattaforma rivoluzionaria, delle forze marxiste e dei cattolici più vicini allo spirito della buona novella. Torres era fra costoro, e la sua capacità di unire profonde analisi sociologiche e impegno concreto per e con i poveri lo rendono figura esemplare. Per lui la “rivoluzione”, autentico “atto d’amore” verso il prossimo, non era solo una possibilità per il credente, ma era una necessità!
A.D.: Il ‘68, il lungo ‘68 italiano, è ormai sottoposto alle amputazioni più incredibili. Ad oggi, quando va bene, è descritto come un semplice momento di modernizzazione generazionale. Nell’introduzione a Liberazione o morte! voi aprite invece un importante squarcio su quel tempo e sulle sue potenzialità rivoluzionarie. Qual è stata l’influenza di Torres e di altri esempi come il suo sulla cultura e sui movimenti di quell’epoca? Anche la destra e suoi intellettuali si dovettero organizzare per tentare di contrastarla…
G.B.: L’influenza in Italia fu considerevole, alla luce, soprattutto, di un richiamo ai padri alla coerenza da parte dei figli, in tutto l’Occidente. Come ci si poteva presentare quali alfieri dei diritti umani, giusti vincitori del nazifascismo, e poi tollerare i crimini di guerra statunitensi nel Vietnam (tollerarli in modo aperto, oppure con un diplomatico silenzio)? Come si poteva accettare che, dopo aver sostenuto la lotta contro il nazifascismo, la maggiore potenza occidentale, militarmente presente in modo forte anche in Italia, appoggiasse dittature militari che difendevano regimi di violenza, oppressione e disuguaglianza sociale? Le celebrazioni della nuova Italia, ogni 25 aprile, rinnovavano la contraddizione fra il “dire” e il “fare”. Contraddizioni simili a quelle evidenziate proprio da Torres negli scritti inseriti nell’antologia ora riproposta.
Il carattere politico del movimento del Sessantotto non aveva una matrice meramente generazionale: era un richiamo a una politica guidata dall’etica della coerenza fra princìpi e azioni. Per questo, nei movimenti studenteschi di Trento e di Torino (ma non solo!) la confluenza dei cristiani critici e dei comunisti critici (quelli che rifiutavano l’aggressione sovietica alla Cecoslovacchia, per fare un esempio; quelli che vedevano nel modello sovietico soltanto una variante delle dittature di tipo totalitario) fu un fenomeno forte e ampio. Certo, ingenue speranze erano riposte nei modelli di socialismo anti-burocratico, dal basso, come quello della “Rivoluzione delle Guardie Rosse”, quello jugoslavo, o quello castrista, dentro e fuori il “fronte dei Paesi non-allineati”. Le loro “durezze” e le loro incoerenze erano viste come il prezzo politico da pagare per l’instaurazione di una società più umana; il prezzo della guerra contro le ingiustizie (e ogni guerra, come noto, ha le sue bassezze). Ma c’era comunque uno slancio generoso, una ricerca genuina di un altrove possibile.
Per la destra, ovviamente, la questione era ben diversa. A parte gli intellettuali raccolti nel M.S.I.-D.N. che professavano, già allora, un liberal-conservatorismo non distante da quello dei “neo-cons” americani di oggi, la “destra radicale” propugnava un ideale di “uomo nuovo” che, sulla base delle lettura di Platone, Nietzsche e Julius Evola, attuava un ordine basato sul primato delle “virtù eroiche” e sulla “costitutiva” disuguaglianza politica e sociale, formalizzata in un ordinamento corporativo dell’economia e in uno schema statale gerarchico e pre-liberale (e, ça va sans dire, anti-liberale). Chi militava in quel campo ritrovava i suoi (dis)valori nelle dittature militari sud-americane, nell’azione dei marines in Vietnam, nei regimi di apartheid razziale come quello della allora Rhodesia e del Sud-Africa. Il loro nemico era il cristianesimo di cui – è il caso, ad esempio, di Adriano Romualdi – vedevano in trasparenza la convergenza con il socialismo marxista ‘terzomondista’. Ma non disdegnavano di apprezzare il cattolicesimo reazionario, antiprogressista, attaccando la “teologia della liberazione” (e naturalmente il nostro Camilo), uniti in questo ai liberalconservatori missini. Il nodo cruciale, in fondo, è sempre lo stesso: qual è il cristianesimo autentico? Quello radicalmente rivoluzionario del Sermone della Montagna o quello che ha fatto pace con il potere, da Teodosio in avanti?
A.D.: La vicenda di Torres invita inevitabilmente ad una riflessione intorno al tema violenza/nonviolenza. Invita ad avere una sensibilità particolare per conoscere e capire realtà in cui violenza e nonviolenza si intrecciano in situazioni e momenti molto particolari della storia umana (da nonviolento quale sono mi viene in mente il caso Bonhoeffer, per fare un esempio). L’America Latina conosciuta da Torres era dominata da un vero terrorismo di Stato e dall’oppressione politica e sociale che fece un numero sterminato di vittime. Qual è secondo te il modo migliore per tematizzare questo nodo all’oggi, con una società connotata da diseguaglianze abissali, per molti versi post democratica e profondamente intrisa di violenza in varie forme?
G.B.: Anche noi citiamo nel saggio introduttivo il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, ucciso nel campo di concentramento di Flossenbürg per aver partecipato a una congiura contro Hitler.
A un compagno di prigionia italiano, che gli chiedeva conto della sua scelta, egli diede una risposta di straordinaria efficacia, nella sua semplicità: «Se un pazzo nella Kurfurstendamm lanciasse la sua automobile sul marciapiede, come pastore io non potrei accontentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Se mi trovassi lì, dovrei lanciarmi e strappare via il guidatore dal volante».
L’azione, anche violenta, in casi estremi è inevitabile. Questo si chiede Torres: quando il cristiano assiste all’oppressione, che cosa deve fare? Fingere di non vedere, vedere e soffrire, oppure agire direttamente contro l’oppressione (cioè contro gli oppressori)? La sua risposta è stata chiara, e ne ha pagato le conseguenze fino in fondo. Ma la sua scelta parla, smuove, interroga. Anche noi oggi, al cospetto di un’ingiustizia senza speranza e di livelli di polarizzazione da tempo fuori controllo.
Nel concreto, il mio collega ritiene che soltanto un riformismo europeo, uno Stato federale a forte vocazione sociale, sul lungo termine possa evitare alle nostre società (e a quella italiana in particolare) di trovarsi in strettoie, in “aut-aut” come quelli in cui si trovò “el cura guerrillero”. Io sposterei l’orizzonte ancora più in là. È di un nuovo internazionalismo che mi pare ci sia molto bisogno; una prospettiva globale, ben lontana dagli incantesimi neoliberisti, e attenta a recuperare uno spazio congruo per una “politica”, democratica e partecipata, troppo a lungo subordinata, nei fatti e nelle idee, alla sfera economica. Mi pare chiaro, comunque, che sul breve periodo soltanto un’azione del pubblico potere che perequi le disuguaglianze più marcate e le situazioni crescenti di indigenza possa evitare il peggio. Occorrerebbe recuperare creativamente, nel quadro di accordi europei, gli schemi di politica economica di molto neo-keynesismo post-bellico che, diventato pratica economica e sociale, ha garantito decenni di benessere. E nel contempo pensare e costruire un’alternativa radicale. La “soluzione-Torres” va vista come la “soluzione limite” nella totale assenza di riforme e nell’abbandono degli indigenti e dei poveri al loro destino, nonché nella gestione repressiva del dissenso tipica della Colombia di quel tempo (ma cosa dovremmo dire oggi, pensando al Brasile di Bolsonaro?).
A.D.: Il complesso tentativo di rifondare la religione cattolica dalla periferia e dalla parte degli oppressi è stato lungamente respinto. Ora, forse, qualche spazio di riconoscimento si è aperto. Ma è l’odierna crisi che ha riproposto vecchie ferite e nuove contraddizioni. Quali spazi vedi per una nuova interrogazione di tutte le coscienze critiche a partire dal messaggio di emancipazione della “teologia militante che lotta per far scendere i poveri dalla croce”?
G.B.: Ciò che più colpisce nella figura di Camilo Torres è la perfetta e “naturale” coesistenza dell’amore illimitato per i poveri e gli oppressi, da un lato, e la dedizione totale alla lotta per la loro liberazione, dall’altro. Una figura esemplare, dicevo, ma non isolata. Il Concilio Vaticano II, e la svolta teologica che lo ha preparato, hanno cambiato la Chiesa, riavvicinandola al mondo. E proprio a latere del Concilio è nato quel nucleo embrionale che ha dato vita alla Teologia della Liberazione. Va ricordato, poi, il vasto campo del dissenso cattolico, prima, durante e dopo il Sessantotto. Le Comunità di base. I Cristiani per il socialismo. Le tante figure carismatiche di un cristianesimo radicale, che vuole la creazione di una società “giusta” ed egualitaria già sulla Terra, a immagine e somiglianza del Regno di Dio. E che quindi vive come un atto naturale la ribellione a un ordine sociale clamorosamente iniquo. Ecco “il dovere della rivoluzione”, un imperativo etico che incrocia le istanze di emancipazione di un comunismo in lotta contro un capitalismo ingordo e spietato, e che si è coraggiosamente esposto a repressione e martirio (basti pensare a un’altra figura esemplare come quella di Oscar Romero).
Il riflusso degli anni Ottanta si è avvertito, pesantemente, anche nella Chiesa, che ha voluto ribadire la propria identità di istituzione millenaria di potere, gerarchico e verticistico. Ma ora il pontificato di Francesco apre nuove prospettive, pur tra contrasti e resistenze. L’orizzonte perduto è quello di una liberazione integrale dell’Uomo, qui e ora. L’istanza liberatrice, sovversiva, del messaggio evangelico, che ha trovato nel continente iberoamericano un terreno quanto mai fertile per palesare la sua forza dirompente, ci può aiutare a ritrovare quell’orizzonte. Le encicliche di Bergoglio, per molti versi, vanno in quella direzione, assai distante dalla chiesa fondata sul potere sacerdotale e magisteriale e sull’autorità “sacra“ della gerarchia.
La Chiesa, dunque, deve fare la sua parte, ma il dovere di costruire un modello di società diverso, fraterno, solidale, per molti aspetti rivoluzionario rispetto all’ordine costituito, è un compito a cui tutte e tutti noi siamo chiamati. Tra i primi, ovviamente, coloro che si ritrovano ancora nelle analisi marxiane e nei valori di un comunismo libertario, che sembra oggi definitivamente tramontato, e che invece – ritengo – è la prospettiva migliore per il nostro futuro. Il pensiero di Torres è in cammino con noi.