Pena di morte, il cammino difficile verso la civiltà
di Fulvio Gianaria
La Repubblica 14/02
Un mondo che poco alla volta si è liberato della legge del taglione, che poco alla volta ha capito che le regole che uno Stato si dà devono essere diverse dalle pratiche dei criminali e che la collettività ha il diritto di difendersi ma non ha il diritto di sottrarre la vita al singolo che la minaccia.
Per centinaia di anni le piazze del mondo, occupate da folle urlanti, hanno ospitato torture ed esecuzioni a danno di innocenti, assassini di strada, ladri di conigli, predicatori blasfemi, streghe.
Con il passare dei tempi le esecuzioni si fecero più sobrie e appartate, non più accompagnate da chiassosi carnevali ma relegate nei silenziosi bracci della morte e con il diffondersi del pensiero razionale gli Stati hanno via via rinunciato ai codici sanguinari e alle vendette legali.
Prima in Europa — dove si pratica ormai solo in Bielorussia — e poi nel mondo dove solo qualche regime totalitario e qualche stato teocratico non accoglie le raccomandazioni degli organismi internazionali, la pena di morte è svanita.
Non ancora negli Stati Uniti ed è storia recente. Per quanto riguarda la storia italiana delle esecuzioni capitali tutto è finito proprio in Piemonte, poco più di settant’anni fa, con una tragica vicenda affondata nella campagna di Villarbasse.
Una sera del novembre del 1945 velami di nebbia circondano la fattoria Saporito sorvolando i campi di biade circondati da gelsi scuri. In cascina è quasi l’ora di cena e l’avvocato Massimo Gianoli riordina le carte in attesa che la fidata Teresa riscaldi il minestrone mentre il mezzadro e i garzoni pensano alle bestie. Poi la notte. Nella valletta ai confini della proprietà, corti e rapidi passi seguono il sentiero fangoso che porta al cancello, quattro figure curve sfilano legate da bisbigli intraducibili.
Il mattino dopo un giardiniere raggiunge il cascinale per i lavori del giorno e trova solo silenzio, i resti di una cena incompiuta, armadi aperti, cassetti scardinati e materassi squarciati. Prima i vicini e poi i carabinieri cercano dieci persone svanite, ma trovano solo macchie di sangue nella stalla e un nome inciso su un rettangolino di metallo fissato nel bavero di una giacca abbandonata.
Nulla di più. Solo il giorno dopo il capo partigiano Fassin, che setaccia la zona con i compagni, ricorda una grande cisterna interrata nel cortile, rastrella le foglie e sposta la lastra di accesso.
Una pertica li aiuta a scendere e a scoprire il massacro: dieci cadaveri con mani e piedi legati da un fil di ferro.
Seguono le indagini, gli arresti sbagliati, la promessa di una taglia e infine la tenacia premiata di un tenente di Venaria che scopre i tre colpevoli, forestieri e analfabeti, destinati alla fucilazione. Il 4 marzo 1947 si ritrovano alle Basse di Stura dinnanzi ad un plotone di 36 moschetti, metà dei quali, caricati a salve. È l’ultima condanna a morte per reati comuni eseguita in Italia. Poi arrivò la Costituzione.