lunedì 19 aprile 2021

Il bisogno di speranza

Un anno fa, papa Francesco celebrava la risurrezione di Cristo rivolgendo il proprio pensiero a tutti coloro che erano stati direttamente colpiti dal coronavirus: i malati, i morti, i familiari che piangevano per la scomparsa dei cari, cui spesso non erano nemmeno riusciti a dare un ultimo saluto; e poi, ovviamente, i medici e gli infermieri che stavano ovunque dando testimonianza di amore e cura fino allo stremo delle forze.
Il Papa parlava della paura e della vulnerabilità delle nostre vite, invitandoci a risorgere insieme al Signore e a mettere da parte egoismi e divisioni, indifferenza e dimenticanze. Ricordo parola per parola il messaggio del 12 aprile 2020 di papa Francesco, così come la pace che era scesa pian piano nel mio cuore. Nonostante il lockdown, mi sentivo vicina a tutte le persone care, e avevo la certezza di poter presto "risorgere" anch'io insieme a loro.
Da allora è passato un anno, e ci ritroviamo nuovamente separati e lontani. Forse ancora più stanchi e più sfiduciati di quanto non lo fossimo nell'aprile del 2020. Una via crucis interminabile che, dopo averci buttato addosso la fragilità dei nostri corpi, ci ha costretto a fare i conti con tutto ciò che più ci manca: l'incertezza costante e l'impossibilità di programmare, il non-senso di una vita priva di prospettive, l'assenza di libertà, quella vera, quella che ti permette di uscire di casa senza avere l'ossessione di controllare le distanze che ci separano dagli altri, di stringere la mano di uno sconosciuto o abbracciare un amico, di prendere un aereo e cambiare Paese, di vivere tutte quelle cose talvolta piccole e banali di cui, però, è fatta la nostra quotidianità.
Oggi, è l'anima che soffre e che fatica a trovare le parole giuste per nominare questa sofferenza e questo vuoto, e disperdere così le tenebre della nostra povera umanità. Il Papa ha parlato anche ieri, naturalmente. E ha parlato di risurrezione e di come si possa ricominciare anche dalle macerie, ha chiesto di aprire i nostri cuori e di vincere i pregiudizi. Ha parlato di speranza. E forse mai come oggi abbiamo bisogno, anche da laici, di parole come queste. Per risorgere dentro e per ricominciare a sperare. Credere che la vita sia più forte della morte non perché la morte non faccia parte dell'esistenza, ma perché ci sono strade da percorrere e eventi da attraversare e sogni da realizzare e poi l'amore, che sopravvive anche quando si è perso tutto il resto. Intendiamoci. Anch'io sono stanca, anzi, stanchissima. Spesso scoraggiata. A tratti persino disperata. Quella disperazione che forse conosce davvero solamente chi, un giorno, ha pensato che il dolore della propria esistenza fosse troppo grande per continuare a battersi e per andare avanti. Quella disperazione che pensavo che non avrei mai più sentito, ma che è lì, perché ci sono cose del nostro passato che non passano mai, e quando il presente assomiglia di nuovo a una stanza senza porte e senza finestre, è difficile trovare all'interno di sé quella forza e quell'energia che sono necessarie per buttare il cuore al di la dell'ostacolo.
È per questo che mi permetto di parlare di speranza. E di quell'amore che resta. E della vita che è più forte della morte. Cose che, con la resilienza di cui tanti, troppi, parlano di continuo, non c'entrano nulla. Perché non è vero che dobbiamo per forza imparare ad assorbire gli urti senza romperci. Il punto non è questo. Sono convinta che abbiamo tutti il diritto di non essere capaci di affrontare come si dovrebbe gli eventi traumatici della nostra esistenza, e a volte anche di romperci. Il punto è la capacità di rialzarsi in senso anche psichico: accettare di cadere e di sbriciolarsi, ma poi ricominciare. "Invocando ciò che non c'è ancora", come scrisse Ernst Bloch. Subito prima di aggiungere: "Cercando e costruendo nell'azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare - incipit vita nova".
Michela Marzano
la Repubblica 4 aprile