Perché è urgente che Biden chiuda Guantánamo
08.05.2021
Il Manifesto 7/5
Musica
da spaccare i timpani, incappucciamenti, «waterboarding», cani feroci
sguinzagliati, privazione del sonno, isolamento, umiliazioni e violenze
sessuali.
Il saudita Mustafa al-Hawsawi,
51 anni, accusato di aver partecipato al piano d’attacco alle Torri
gemelle, da anni non riesce a stare seduto per i dolori inenarrabili al
retto, in seguito alle brutali e ripetute violenze di sodomia subite
nella detenzione ormai quasi ventennale nei siti della Cia e a
Guantánamo. Mustafa mangia il meno possibile e spesso digiuna: per
evitare i conseguenti terribili dolori.
Il
palestinese Abu Zubaydah, detenuto dopo essere stato rapito dalla Cia e
rinchiuso in una cella grade quanto una bara in un sito della Cia
stessa, fu sottoposto alla tortura dell’annegamento, il «waterboarding»,
83 volte. Dopo è finito a Guantánamo e nel 2043, se sarà ancora vivo,
avrà 72 anni, e forse ne uscirà.
Gli
altri detenuti, in tutto quaranta, tra ventiquattro anni semplicemente
non ci saranno più, per motivi anagrafici, ma più probabilmente perché
eliminati da malattie, invalidità, disturbi fisici e mentali,
conseguenze di una infinita detenzione disumana, senza processo,
illegale, senza ombra di diritto e di diritti, senza adeguata assistenza
medica.
Perché il 2043? Perché la
prigione nella base americana a Cuba è destinata a restare operativa per
almeno altri due decenni, secondo i piani del Pentagono, su indicazione
di Trump.
Eppure, specie dopo
l’annunciato ritiro dall’Afghanistan e con l’escalation del terrorismo
domestico, non ci sono più ragioni, se mai ci sono state, perché
Guantánamo resti operativa e perché i detenuti non siano liberati o
quanto meno trasferiti nei diversi paesi da cui provengono e dove furono
violentemente e illegalmente rapiti per essere prima detenuti nei siti
della Cia – torturati, violentati, umiliati – e per essere poi detenuti a
Guantánamo in attesa di processi che non sarebbero mai arrivati.
Un
orrendo capitolo delle orrende 1war on terror! e guerre in Afghanistan e
nel Golfo. Milioni di morti. Decine di migliaia di caduti americani.
Ottocento «terroristi» nei siti della Cia per poi finire nel buco nero
di Guantánamo.
Vent’anni che pesano
sull’America non meno di quelli del Vietnam. Ragione in più per porvi
fine. Completamente. Non solo col ritiro da Kabul.
A
questo punto solo una forte, determinata decisione da parte della Casa
Bianca può mettere termine a queste pagine ignominiose della storia
recente americana.
Joe Biden può farlo.
Può fare ciò che Barack Obama s’impegnò a fare e non fece. Per
l’ostruzionismo incontrato al Congresso, a maggioranza repubblicana.
Avrebbe dovuto farlo rapidamente, nei primi due anni della sua
presidenza. Dopo, com’è avvenuto, non avrebbe avuto più le leve per
farlo. E sarebbe diventato complice, di fatto, della vergogna che egli
stesso aveva denunciato con forza e che aveva promesso di cancellare.
Non averlo fatto sarà per lui motivo di grande rimorso, egli stesso ha
poi detto.
Biden può chiudere Guantánamo
come logico corollario dell’annunciata fine della presenza americana in
Afghanistan. E perché il Congresso ha oggi una maggioranza democratica
nei suoi due rami. Anzi, una parte importante del Congresso stesso
glielo chiede.
In una lettera a Joe
Biden, il 16 aprile scorso, un presidente di commissione, il senatore
Dick Durbin, e 23 suoi colleghi senatori chiedono l’immediata chiusura
della prigione di Guantanamo Bay «simbolo di illegalità e di abusi dei
diritti umani». Almeno sei di loro possono essere rilasciati, gli altri
trasferiti nei paesi d’origine, altri ancora finalmente processati e
detenuti in carceri americane. Ai senatori si uniscono organizzazioni
per diritti umani e una vasta opinione democratica.
L’urgenza
di chiudere la prigione in terra cubana è dettata anche dall’evidente
constatazione che la sua stessa esistenza – sostengono i senatori –
annulla la pretesa dell’America di ergersi a potenza che tutela i
diritti umani e la legalità nel mondo, ne danneggia la reputazione,
alimenta il razzismo anti-islamico, ne indebolisce la lotta al
terrorismo, peraltro oggi domestico.
E’ tempo di por fine a tutto questo.
Il
rischio, adesso, è che il ritorno d’attualità del tema sia offuscato da
altre vicende. Dopo la lettera dei senatori non si è avuto segno di
averla ricevuta da parte della Casa bianca. Importante che se ne
continui a parlare, che si faccia pressione.
A
questo può servire anche un film come The Mauritanian, da poco
disponibile su Amazon Prime, la storia vera di un pacifico cittadino
mauritano, Mohamedou Ould Slahi, catturato, senza prove, dai servizi
americani perché creduto coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, e
detenuto a Guantánamo.
Un film crudo,
che scuote le coscienze, anche di chi sapeva e sa della sinistra
prigione, della pratica delle rendition e delle complicità europee,
anche italiane. Una brutta storia che sarebbe oltraggioso tornare a
dimenticare. A meno che non ci sia un interesse preciso a che proprio
questo accada.