Il sinodo della penitenza
di Alberto Melloni
La Repubblica 22/5
Fra
due giorni si terrà l’assemblea annuale dei vescovi italiani.
Appuntamento usurato, eppure mai come stavolta decisivo per il
cattolicesimo e dunque per il Paese, se è vero, com’è vero, che la
Chiesa anticipa e vive sia le speranze sia i disastri che determinano
poi la vita civile.
Dopo una lunga
incertezza il Papa darà infatti la sua benedizione al primo sinodo
nazionale italiano. Atto ancor più cruciale dopo una pandemia nella
quale problemi spazzati per decenni sotto il tappeto della storia sono
usciti da lì ingigantiti: la pestilenza ha infatti svelato manierismi
spiritualistici, documentato predicazioni deprimenti e confermato il
ciclico lambiccarsi sulla plausibilità di un partitino cattolico
(nessuna) che perimetra il provincialismo cattolico. I “convegni
ecclesiali”, che di quelle vere magagne e inutili rimpianti erano la
culla, sono finiti: perfino il Papa, sconcertato dal disinteresse con
cui è stato accolto il suo discorso al convegno di Firenze del 2015, ha
dovuto prendere atto che era quel modello che produceva una sordità
suppletiva fra i vescovi.
E dunque passa
a un sinodo: che non è una istituzione democratica spruzzata d’acqua
santa, ma un farmaco. È un farmaco omeopatico che chiede ai vescovi di
diventare la cura di mali di cui sono causa: senza castelli di carta
istituzionali e senza quel feticismo della vaghezza che ama far sua
qualche citazione del pontefice.
Il
sinodo, però, è un farmaco difficile da usare, come dimostrano i casi
recenti. Il sinodo sulla famiglia del 2015 ha energizzato una destra
antipapale silenziosa da un secolo. Il sinodo amazzonico del 2019 non ha
potuto dare alle chiese di quelle terre i preti sposati, che Benedetto
XVI ha concesso di ordinare ovunque, purché ex anglicani. Il cammino
sinodale tedesco in corso è stato punzecchiato con atti, come quello
sulle benedizioni delle persone gay, che delegittimano i vescovi ed
esasperano i fedeli. E dunque nemmeno il sinodo italiano sarà “facile”:
ma può essere fecondo, per la Chiesa e per il Paese, se individuerà
registro, soggetto e tempi della sua celebrazione.
Il
registro del sinodo non potrà che essere quello della penitenza. La
società inviperita e impaurita che le destre palesi e occulte
inviperiscono e impauriscono, è rispecchiata dalle lacerazioni della
Chiesa: vescovi che si sgambettano, mediocrità intellettuali che
giustamente si disistimano a vicenda, arroganze in competizione. A
questo si può metter mano solo con una penitenza severa e sincera: per
svelenire l’odio che percorre organi, comunità, monasteri e per far
amare la fraternità.
Il soggetto del
sinodo non potrà che essere quello delle chiese locali. Il cattolicesimo
non è una federazione di parrocchie o di movimenti o di gusti. È
comunità di comunità adunate dalla parola e dalla eucarestia attorno ai
successori degli apostoli nella compagnia dei poveri e dei peccatori a
cui si rivolge il Vangelo. Se si vuole la sinodalità dal basso deve
esser chiaro che il basso è questo e non un immaginario populismo
clericale o la variante ecclesiastica della democrazia diretta.
Il
tempo del sinodo è la grazia. Il sinodo non è performance, non è la
stampante dei produttori seriali di “documenti” o un corso di sociologia
religiosa applicata.
È tempo che serve
ad individuare i nodi teologici (il ministero, il diritto delle comunità
all’eucarestia, il sacerdozio comune) che sono stati o evitati o
risolti con faciloneria ora tradizionalista ora modernizzante. Ma per
farlo bisogna archiviare lo stolido antagonismo fra una caricatura della
“dottrina”, come se essa fosse un fossile custodito nel catechismo, e
la caricatura della “pastorale”, descritta come un packaging “che non
tocca la dottrina”. E ritornare alla teologia roncalliana che crede che
solo unità e comunione possano liberare il Vangelo e quella sua forza
sanante, che oggi sembra imprigionata da narcisismi febbricitanti,
politicismi banali e fervorini semplicisti. Anche sul sinodo.