Se a Trieste la storia riscrive la Basaglia
Massimo Recalcati La Stampa 7/6
La
riforma psichiatrica di Franco Basaglia, conosciuta come Legge 180,
approvata nel maggio del 1978, è stata probabilmente la riforma più
significativa, se non l'unica, figlia della grande contestazione del
'68.
Essa ha avuto nella città di Trieste il suo epicentro geografico e
politico. E' questa una cifra simbolica di grande rilievo: nella città
italiana che più di tutte porta con sé il valore, anche traumatico,
dell'esperienza del confine, si chiude il manicomio come luogo di
segregazione brutale della follia per ricordare alla vita della polis
che essa – la follia – non è l'indice di una vita che si è
disumanizzata, ma un'esperienza dove la condizione umana trova una sua
espressione tragica ma fondamentale.
Basaglia lo ripeteva spesso: la
follia non è una malattia del cervello, ma una manifestazione della vita
dell'uomo.
Il movimento che ha portato alla chiusura dei manicomi nel
nostro paese e all'idea di un servizio per la salute mentale radicato
sul territorio (al di là dei limiti incorsi nella sua effettiva
applicazione), e' stato un movimento non solo interno alla storia della
psichiatria, ma anche più ampiamente filosofico e politico: liberare il
folle dalla violenza dell'istituzionalizzazione che tendeva a
cronicizzare la malattia, sottrarlo al destino del confinato,
dell'emarginato, dello scarto della società.
Grande opera, dunque, di
inclusione, di riscatto anche civile, di riapertura dei confini.
Oggi
Trieste torna a essere ancora la cifra emblematica di una battaglia
politica e culturale, quella relativa all'eredità di Basaglia.
Nel
Friuli Venezia Giulia funziona attualmente un sistema di assistenza
psichiatrica fondato sui Centri di salute mentale aperti 24 ore, con la
possibilità di accogliere persone in crisi in un ambiente accogliente e
non ospedaliero che si è rivelato capace, anche durante l'emergenza
pandemica, di offrire cura alle persone "in tempo reale", con un
approccio non solo psichiatrico in senso stretto, ma allargato ai
bisogni della vita nella sua interezza, nel rispetto dei diritti umani,
seguendo l'ispirazione di fondo della psichiatria rinnovata dal pensiero
di Basaglia.
Tale sistema – fortemente innovativo rispetto a quelli di
altre regioni, basati spesso solo su ambulatori che erogano psicofarmaci
e non fanno visite a domicilio, squallidi reparti ospedalieri a porte
chiuse dove si pratica largamente la contenzione fisica, strutture
residenziali private, fonte di cronicità, che assorbono gran parte degli
investimenti delle aziende sanitarie – ha dimostrato a tutt'oggi di
essere non solo l'applicazione più compiuta a livello nazionale della
legge 180, ma un modello di intervento talmente efficace da essere
proposto da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità in una
importante guida pubblicata in questi giorni, come esempio mondiale di
rete integrata di servizi per la comunità. Ebbene, recentemente,
l'assessore regionale alla Salute del Friuli Venezia Giulia, Riccardo
Riccardi, sembra si stia impegnando per la sua progressiva demolizione.
In gioco, come è evidente, non è solo l'eredità culturale e clinica di
Franco Basaglia ma anche la sorte di molti pazienti. Una lettera a firma
di cinque ex direttori dei Dipartimenti di salute mentale della regione
ha lanciato l'allarme.
Nonostante i molteplici riconoscimenti, come
denunciato in questi giorni in una petizione pubblica anche dalle
Associazioni dei Familiari dell'Unasam, l'assessore non nasconde la
volontà di mettere mano a questo sistema attraverso progetti che mirano a
ridurre il numero dei Centri di salute mentale e il loro orario di
apertura, a rinforzare l'assistenza ospedaliera, a impoverire di risorse
materiali e umane i dipartimenti di salute mentale, diminuendo il
personale e nominando, dopo i numerosi pensionamenti, direttori che
siano in linea con il nuovo indirizzo per spezzare la continuità
dell'attuale linea dirigenziale.
Ultimo grave episodio è stato il
recente concorso per direttore di un centro di salute mentale a Trieste
che ha visto penalizzati tutti i dirigenti che lavorano nel dipartimento
giuliano, in particolare colui che era primo in graduatoria per titoli,
pubblicazioni e curriculum, superato nella prova orale dal terzultimo
fra i candidati, proveniente da una realtà arretrata di un'altra
regione, dove si pratica la psichiatria in reparti ospedalieri
fatiscenti, usando ancora la contenzione fisica e dove c'è scarsissima
esperienza di lavoro sul territorio.
La
domanda allora diviene inevitabile: perché si vuole affidare a queste
persone la guida dei servizi triestini? Perché si vuole dimenticare
l'eredità basagliana e voltare drammaticamente pagina?
Il passo indietro
che si sta compiendo oggi a Trieste riguarda, in fondo, il bivio più
profondo al quale il pensiero di Basaglia ci ha consegnati: la cura
della follia implica la sua segregazione, la soppressione della dignità
di uomo del malato, la riabilitazione di pratiche di cura francamente
autoritarie e disumanizzanti, oppure bisogna sempre riconoscere che la
follia e la sua cura non sono la perdita dell'uomo, ma una possibilità
sempre presente in ogni uomo? È, infatti, a questo riconoscimento di
fondo che Basaglia ci sospinge: la follia coincide con l'umano.
Nota
bene: ciò che succede a Trieste è ciò che da tempo è in atto in tutto
il territorio nazionale. Sto pensando che Basaglia è sempre citato e
insieme morto e sepolto.
La
psichiatria è diventata poco più di una farmacia...perché non progettare
a Pinerolo un gruppo "genitori amici dei sofferenti mentali
abbandonati?"
Franco Barbero