martedì 22 marzo 2022

C'ERA UN GIUDICE, PER FORTUNA

 PER FORTUNA C’ERA UN GIUDICE A SANTA MARIA CAPUA VETERE


NAPOLI. «Bisogna vedere, onorevoli colleghi. Viverci, in quelle celle. In certe carceri italiane. Bisogna starci, per rendersene conto», esortava Piero Calamandrei. Difficile immaginare che quel discorso, ancora un secolo dopo, avrebbe fornito la chiave per svelare una vergogna occultata dietro impenetrabili muri di cinta.

Un giudice di Sorveglianza, Marco Puglia, invece bussa a sorpresa in una casa circondariale. È quasi notte. Ma i vertici non possono vietargli l’ingresso, lo impone la legge: poteri di vigilanza, articolo 69 dell’Ordinamento penitenziario. Lui scopre che le timide denunce fatte a voce via Zoom sono fondate, i feriti numerosi, quasi tutti i carcerati di quel padiglione presi a botte, i più malconci isolati in Medicheria senza assistenza, su materassi senza lenzuola né cuscini. A quel punto chiede carta e penna: due, tre, fino a dieci volte. Ma agenti e ispettori resistono, dicono di non trovare né fo gli né penna. Lui usa allora il bloc notes del cellulare.

Nasce così l’indagine su quella che sarà definita l'"ignobile mattanza" messa a segno, durante il primo duro lockdown, nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E che ora vede avviata al processo un'intera catena di comando dell'amministrazione penitenziaria. È un'onta su cui anche l'Europa chiede risposte perché la rappresaglia di Stato colpisce decine di inermi detenuti: tutti colpevoli di aver inscenato, il giorno prima, il caos e la protesta per chiedere più assistenza e presidi di protezione anti-Covid.

Ciò che doveva restare"b1indato", con una catena di falsi e posticci ritrovamenti di armi e oggetti offensivi, diventa invece incredibilmente documentato. Le telecamere che qualcuno dei “soci” ha dimenticato di disattivare registrano le violenze sui reclusi. Scene che gli imputati di oggi cercheranno vanamente di cancellare. E invece, sequestrate dalla Procura e poi allegate agli atti, quelle immagini mute e potenti faranno il giro del mondo. Detenuti schierati con la faccia al muro, costretti a inginocchiarsi, presi a manganellate, a sputi. Addio impunità. «Nonostante lo sforzo, il film va in onda in forma completa», scrive preoccupato in chat, il 14 aprile 2020, Angelo uno dei poliziotti intercettati.

IMPOSSIBILE DIMENTICARE

Era L’ ottobre del 1948, quando Calamandrei citava la lezione di Pasquale Saraceno: «Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore, che i fascisti assassinarono nei giorni della Liberazione, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori, il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati. Vedere, questo è il punto. Per poter capire». Oggi, se lo scandalo dei pestaggi consumati il 6 aprile 2020 nella fatiscente struttura Francesco Uccella incardina il processo più grave messo in piedi sulla gestione di un carcere nell'Italia repubblicana - 108 indagati tra agenti, comandanti e funzionari, accuse di tortura, lesioni, falso, depistaggio, per 12 anche di omicidio colposo - è perché un'altra toga, della Sorveglianza, cenerentola della magistratura italiana, ha deciso andare a vedere.

È il giudice Puglia a violare il primo, duro coprifuoco per arrivare a sorpresa su quel bunker. Senza preannunciare visite, quasi le dieci di sera del 9 aprile, bussa al carcere di Santa Maria Capua Vetere. «Mi procurai da solo la tuta isolante, i guanti, i sistemi di protezione. Le strade erano deserte e c’era il terrore di contagiarsi, specie in carcere, anch‘io ne avevo un po' paura», si limita a dire oggi, alzando le mani. «Sarò testimone al processo, toccherà ai giudici del Tribunale accertare i fatti. Quindi io mi fermo qui. Ma è stata un’esperienza umana oltre che professionale che non dimenticherò», spiega al Venerdì. Respinge altre domande, saluta, si allontana, una sacca da palestra sulle spalle. Quella sera, Puglia entra nella casa circondariale, scende nel girone infernale del Reparto Danubio, ascolta i lamenti di chi è ferito, di chi è stato "punito", sente i detenuti in isolamento e medicheria. E vede. Lividi, ecchimosi, volti tumefatti, ginocchia ferite, capelli o barbe tagliate con la forza. «Tutti si sorpresero della mia visita. Rimasero basiti», scriverà nella sua relazione consegnata al procuratore aggiunto Alessandro Milita e alle pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto.

In un angolo, sofferente, c'è un ragazzo algerino di 28 anni, Hakimi Lamine, già affetto da epilessia, morirà pochi giorni dopo. È il motivo per cui la Procura ha ottenuto dal Riesame l’imputazione di omicidio colposo per dodici imputati. Su un altro letto, «il detenuto Gennaro Cocozza indossa ancora una maglietta lacerata, che mi disse esser stata strappata durante le operazioni del 6 aprile. Mi affacciai in bagno, vidi che non aveva alcuna dotazione, niente con cui pulirsi, il che in tempo di emergenza Covid risulta ancora più indegno e insalubre». E ancora: «In ogni mio spostamento fui seguito come un'ombra da tre unità della polizia penitenziaria. Chiesi loro più volte, non disponendo di carta, che mi portassero un foglio e una penna. Anzi, lo domandai una decina di volte». Ma niente. «Percepii un leggero sgomento per la mia presenza lì».

PAGHEREMO TUTTI

Il Guardasigilli è Alfonso Bonafede, al suo fianco il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini. Nel giugno 2021, il blitz è uno tsunami che decapita la linea di comando e manda agli arresti oltre un centinaio di persone tra agenti e vertici della sicurezza.

Conchita Sannino, Il Venerdì 11 marzo

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