prof. Marco dal Corso
Voler
ricordare assieme a Turoldo e Balducci, anche la figura del pastore
battista Martin Luther King a cinquant'anni dalla sua morte infine ci
invita ad una terza conclusiva osservazione. La centralità dell'etica,
così come il principio narrativo rischiano i non essere capace di
sostenere il sogno, di coltivare la speranza se non diventano discorso
pubblico.
Anche a prezzo della sua vita, Martin Luther King ha
interpretato il suo sogno sul mondo come discorso pubblico. Per dare
ragione della speranza allora, serve una teologia pubblica
ecumenica.
Capace di stare dentro il pluralismo di culture e fedi per non
ridurre la religione a dimensione privata, ma anche per non diluire in
un comune linguaggio "religiosamente corretto" la carica profetica delle
religioni.
Capace di abitare lo spazio pubblico per tradurre il
linguaggio religioso in una grammatica universale accessibile anche a
chi non appartiene alla comunità confessionale, in vista di una società
più giusta ed egualitaria.
Una teologia
pubblica ecumenica che sa stare dentro il dibattito pubblico aiutando a
costruire l'idea di cittadinanza quando essere cittadini, come ricorda
Martin Luther King, è abbracciare lo statuto di umanità; una teologia
pubblica ecumenica che collabora e dialoga con le scienze sociali, le
culture e le religioni in maniera interdisciplinare e interreligiosa.
Ed
infine una teologia pubblica ecumenica per aiutare i credenti a smettere
di essere autoreferenziali, non scambiare la chiesa con il Regno, a non
cedere alla tentazione del fondamentalismo o del discorso apologetico.
Alla scuola di Martin Luther King, la teologia pubblica ecumenica anche per noi oggi è quella fatta nello stile della parresia cercando
sempre la verità delle cose, parlando quando altri si calano, chiedendo
l'impossibile pure accentando il provvisorio. Quella interpretata
secondo il principio di eternità, capace di educare alla convivenza,
difendendo il diritto anche delle altre comunità, sostenendo la laicità
come luogo di dialogo. Una teologia a vocazione kenotica, perché sceglie
di vedere le cose a partire dei poveri, accettando di non avere l'ultima
parola, vivendo alle frontiere. Una teologia che non ha paura di fare
proprio il paradigma pluralista, accettando il pluralismo non solo come de facto ma anche de iure
come economia divina di salvezza, come luogo da cui ripensare le forme
storiche delle religioni. Infine una teologia pubblica ecumenica che
sappia dire e praticare il principio ospitalità: cercando la
verità non assimilando l'altro, ma diventando suo ospite, valorizzando
esperienze di ospitalità tra persone di religione e cultura diversa,
dando ragione del pensiero ospitale. Una teologia pubblica ecumenica che
permetta un'esperienza cristiana e credente costruita sul carisma prima
che sul potere, sul compassionevole prima che sul dogmatico, sul
soteriologico prima che sul teologico, che permette l'esperienza di Dio
prima che la sua spiegazione.