“Coppie che litigano davanti ai figli commettono reato”
di Sarah Martinenghi
La Repubblica, 2 aprile
Ogni giorno sentiva le urla degli adulti rimbombare in casa. La madre, una modella ucraina, e il suo compagno si azzuffavano litigando: si insultavano, volavano schiaffi, sputi, graffi e minacce. Si prendevano per i capelli e spaccavano oggetti. Lui era solo un bambino di una decina di anni. Non gli serviva coprirsi le orecchie e accucciarsi in un angolo impaurito. Non poteva scappare di casa. Quelle scenate a cui era costretto ad assistere non erano contro di lui, ma erano pura violenza. Così per la procura il bambino ne è stato a tutti gli effetti la vittima, un soggetto passivo e uno spettatore diretto di tutta quell’aggressività.
E per la coppia è scattata l’accusa di maltrattamenti, commessi nei suoi confronti pur non avendo agito in maniera diretta verso il minore. Con un’aggravante, diventata il vero oggetto del processo, quella della “violenza assistita”.
Una tesi inedita, visto che per il codice la “violenza assistita” è generalmente un’aggravante che inasprisce la pena di chi commette il reato alla presenza di un minore. Non c’erano però querele della donna nei confronti del compagno, o di lui verso di lei, a cui poter agganciare quell’aggravante.
Ma la pm Barbara Badellino non si è arresa. Nemmeno davanti al primo round in cui un giudice le ha dato torto: al termine dell’udienza preliminare infatti il gup Stefano Vitelli ha prosciolto lui (che aveva scelto il giudizio) e assolto lei che voleva il rito abbreviato.
E così la pm ha fatto appello sostenendo la sua tesi: far assistere un figlio a continue violenze fisiche e verbali non è solo moralmente diseducativo e disdicevole, è un maltrattamento verso di lui. «L’assoluzione è fondata sull’errata conclusione che la condotta contestata abbia esclusivamente rilevanza sul piano etico, morale e civile, ma che non abbia rilevanza penale - scrive la pm nell’atto di appello - La ‘violenza assistita’ è ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione». Il gup ritiene insomma «che sia reato ai danni del minore non oggetto diretto della violenza, solo se c’è un maltrattamento di uno dei genitori ai danni dell’altro. Ma il codice tutela l’integrità psicofisica del componente della famiglia. Se è pacifico che la vittima del reato è il minore costretto ad assistere abitualmente a comportamenti di violenza fisica e verbale, e di sopraffazione di un adulto nei confronti dell’altro tale da provocargli sofferenza esistenziale, non si capisce perché dovrebbe essere necessaria l’esistenza di un reato di maltrattamenti a monte per configurare quello ai danni del minore che assiste».
Per l’accusa era provata la «profonda sofferenza, l’infelicità e il malessere del bambino». Non solo perché la madre pensava solo a se stessa, a farsi bella, ad andare dall’estetista, riempiendo la cameretta del bambino con i suoi abiti e scarpe. Ma anche perché il piccolo aveva manifestato il suo disagio a scuola. Lui viveva con il padre ma ogni volta che vedeva la madre raccontava delle litigate tra la donna e il compagno scatenate per colpa della reciproca gelosia. Ed era stato il genitore a sporgere denuncia. «Si tratterebbe per il pm di maltrattamenti assistiti. Ma scrive il gip - per assistere a un maltrattamento che determina un aggravamento della pena e che fa sì che il minore sia considerato parte offesa, è imprescindibile che vi sia un reato a monte, a cui si agganci l’azione abituale passiva del minore che vi assista».