Aumento delle spese militari: non è un destino obbligato
Domenico Gallo 1 Aprile 2022
Micromega
Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!
Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!
I versi del canto VI del
Purgatorio di Dante Alighieri sono il commento più adeguato alla
decisione di incrementare ulteriormente le spese militari fino a
portarla al 2% del PIL (3,5% del bilancio dello Stato), preannunciata
dal Presidente del consiglio Draghi il 1° marzo e approvata dalla Camera
con un ordine del giorno votato a stragrande maggioranza.
Non è un
impegno da poco, si tratta di passare dai circa 25 miliardi l’anno
attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni
al giorno).
Aumentare di 13 miliardi all’anno le spese per l’acquisto
di armamenti (li chiamano investimenti per la difesa) quando è già stato
previsto un taglio di sei miliardi di euro per la spesa sanitaria per
gli anni 2023 e 2024, non è il modo migliore per tutelare gli interessi
del popolo italiano, eppure i principali mass media hanno fatto a gara
nel censurare Conte che si opponeva a una scelta così deleteria.
D’altro
canto Draghi è stato irremovibile e si è rischiata una crisi di governo
fino a quando non è stato trovato il compromesso di spostare al 2028 il
raggiungimento di questo infelice traguardo.
La tesi di fondo avanzata dal coro degli atlantisti è che l’Italia deve rispettare gli obblighi assunti in sede NATO, in particolare nel vertice dei capi di Stato e di Governo, svoltosi il 4/5 settembre 2014 nel Galles in cui fu concordato che i paesi europei avrebbero dovuto aumentare la spesa militare con l’obiettivo di portarla al 2% del PIL entro il 2024.
La tesi di fondo avanzata dal coro degli atlantisti è che l’Italia deve rispettare gli obblighi assunti in sede NATO, in particolare nel vertice dei capi di Stato e di Governo, svoltosi il 4/5 settembre 2014 nel Galles in cui fu concordato che i paesi europei avrebbero dovuto aumentare la spesa militare con l’obiettivo di portarla al 2% del PIL entro il 2024.
Su
questo punto occorre fare chiarezza.
A norma dell’art. 117 della
Costituzione: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento e dagli obblighi internazionali”. I vincoli che il
legislatore deve rispettare sono quelli che derivano dal diritto
internazionale consuetudinario e quelli che derivano del diritto
internazionale pattizio, cioè dai trattati internazionali. Le
dichiarazioni d’intenti espresse nei vertici NATO, ovviamente non
rientrano nel diritto internazionale generale, né sono dei trattati
internazionali. Qualora – in via d’ipotesi – in sede NATO fosse stato
firmato un trattato internazionale con l’impegno a effettuare
determinati “investimenti” nella Difesa, questo trattato, prevedendo
oneri alle finanze, avrebbe dovuto essere sottoposto all’approvazione da
parte del Parlamento, con legge di autorizzazione alla ratifica, ai
sensi dell’art. 80 della Costituzione.
Naturalmente in sede di ratifica
il Parlamento sarebbe stato libero di dire no. Il fatto che Renzi abbia
promesso a Trump nel 2014 di raddoppiare le spese militari è un evento
politico che non può in alcun modo pregiudicare la libertà del
Parlamento di allocare le risorse del bilancio pubblico, se l’Italia è
ancora uno Stato sovrano. Ma il punto è proprio questo: la sovranità.
Nell’agosto del 1968 il Segretario del PCUS, Leonid Breznev, giustificò
l’invasione della Cecoslovacchia enunciando la dottrina della “sovranità
limitata” dei Paesi aderenti al Patto di Varsavia.
Nell’ambito della
NATO la dottrina della sovranità limitata non è stata mai enunciata,
nondimeno è stata praticata in forma occulta ma efficace.
Quando in
Italia si profilava un cambiamento politico rispetto agli assi
tradizionali della guerra fredda, il segretario della DC Aldo Moro, nel
corso del suo viaggio negli USA, il 25 settembre del 1974, ricevette una
esplicita minaccia di morte da parte di Henry Kissinger, personaggio
non aduso a parlare a vanvera. Dalla morte di Moro in poi, l’Italia
adempie agli “obblighi” dell’Alleanza atlantica, senza discutere, sia
che si tratti di collaborare alle extraordinary renditions (vedi vicenda
Abu Omar), sia che si tratti di partecipare a delle manovre militari
nei Paesi baltici o nel Mar Nero, sia che si tratti di inviare armi
letali all’Ucraina, sia che si tratti di raddoppiare le spese militari,
malgrado il disastro economico-finanziario provocato dalla pandemia.
Poiché l’epoca della costrizione violenta attraverso la strategia della
tensione è terminata con la fine della prima guerra fredda, tutto questo
atlantismo d’assalto dei vertici istituzionali e dei leaders politici
non può trovare altra spiegazione che in una libidine di servilismo,
l’antica vocazione al servaggio di cui parla Dante. Del resto non può
essere un caso che l’Italia, qualunque sia il governo in carica, in sede
di Consiglio atlantico non abbia mai detto no, sappia solo dire sempre e
soltanto sì, anzi: signorsì. All’obbedienza atlantica noi preferiamo
l’obbedienza alla coscienza, che è illuminata dalle parole di Papa
Francesco che ha dichiarato: “Io mi sono vergognato quando ho letto che
un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil
nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo
adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi,
altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra
impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato –
non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare
le relazioni internazionali”.