venerdì 27 maggio 2022

DALLA PANDEMIA COSA ABBIAMO IMPARATO?

 L’occasione sprecata della pandemia


26-05-2022 - di: Valentina Pazé
 Volerelaluna

A poco più di due anni dall’inizio della pandemia, è il momento per provare a tracciare un primo bilancio. Quali effetti ha avuto l’irruzione del covid-19 nelle nostre vite e nella nostra società? In che cosa siamo cambiati? Che cosa abbiamo – o non abbiamo – imparato?

A seconda di come si risponda a queste domande, i lunghi mesi di confinamento pandemico possono essere interpretati come semplice interruzione del flusso “normale” del tempo, destinata ad essere al più presto superata e dimenticata, o come sospensione: «dimensione del venir meno delle certezze, della drammatica ma salutare messa in discussione dei presupposti stessi della nostra vita sociale e della nostra cultura, un momento, non necessariamente breve, di rielaborazione, dopo il quale “nulla sarà più come prima”». Ce lo ricorda Claudio Villiot nel suo Piccolo decalogo ai tempi del Coronavirus, compreso in un volumetto a più voci intitolato Cronache dalla pandemia (Pensieri in Piazza, Panerose, 2021), da cui prendo spunto per proporre qualche riflessione.
Nel suo contributo, Francesco Remotti spiega che la sospensione culturalmente programmata di tutte le attività sociali ed economiche è prevista in diverse società africane tradizionali alla morte del capo villaggio. Si apre allora un periodo, più o meno lungo, di stasi, immobilità, attesa, che dura fino a quando non si profila all’orizzonte la figura del successore. Un’occasione non solo di ripensamento, ma di vero e proprio “azzeramento”, in cui «è come se una società volutamente tornasse indietro, ripartisse da zero» (p. 92). Qualcosa che non è estraneo – aggiungo io – alla tradizione ebraico-cristiana, che conosceva l’istituto del giubileo, finalizzato a «fare riposare la terra» e a ripristinare una qualche forma di giustizia tra gli uomini (si veda G. Franzoni, Farete riposare la terra. Lettera aperta per un giubileo possibile, EdUp, 2016). Nel caso della pandemia la temporanea cessazione di tutte le attività, salvo quelle destinate alla produzione dei beni essenziali, non è stata programmata e si è imposta come una necessità cui hanno finito col piegarsi, per lo meno in Europa, anche i cantori più strenui della globalizzazione e del libero mercato. Questo periodo di forzata immobilità è calato su società disabituate alle pause, che hanno fatto del movimento frenetico, della crescita continua e della riduzione di tutti i “tempi morti” il loro imperativo primario. L’effetto, come tutti ricordano, è stato spiazzante: le città vuote di automobili e di passanti, le persone sigillate in casa davanti a tv, cellulari, computer, ma anche l’aria che torna ad essere respirabile e gli animali selvatici che si riprendono i loro spazi, quasi a prefigurare un modello diverso di convivenza possibile. E, su tutto, la paura del contagio e della morte, il grande rimosso delle società occidentali, che è tornata ad abitare i nostri giorni e le nostre notti, ricordandoci la nostra condizione di esseri fragili, finiti, bisognosi di cura.

Interruzione o sospensione, dunque? O forse, come qualcuno ha sostenuto, anticipazione di un futuro distopico in cui i cittadini saranno «censiti, sorvegliati e controllati» dai loro governi «in una misura che non ha precedenti anche nei regimi più totalitari» (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-tessera-verde)? Sgombro subito il campo da quest’ultima ipotesi. Con buona pace di Agamben, non direi che ci troviamo oggi di fronte a un inedito restringimento degli spazi di libertà e agibilità democratica. Dopo la fase dei discussi – e discutibili – DPCM, siamo tornati all’“ordinario” abuso di decreti e voti di fiducia, alla quotidiana umiliazione del parlamento da parte dell’esecutivo, alla scarsa o nulla trasparenza dei processi decisionali, alle forze dell’ordine che caricano senza motivo studenti e lavoratori in corteo… Come prima, più di prima, in sostanziale continuità. Semmai, la pandemia ha offerto un’occasione irripetibile al “capitalismo della sorveglianza” per svilupparsi ulteriormente e generare immensi profitti. Ma, anche su questo piano, molto era già accaduto prima del confinamento: «Eravamo già trasformati dall’interno del nostro essere, ma senza saperlo. Avevamo già concesso ai nostri telefonini memoria, giudizio e scelte» (intervista a Derrick de Kerchove, p. 143).

Niente di nuovo, dunque? Non proprio. I drammi che si sono consumati durante la fase acuta della pandemia hanno contribuito a rivelare, e a esaltare, mali pregressi, come la scandalosa diseguaglianza nell’accesso alle cure e ai farmaci, lo stato pietoso in cui versa la scuola dopo anni di abbandono e sotto-finanziamento, le condizioni di sfruttamento e insicurezza cronica di molti luoghi di lavoro. «Le nostre società – scrive Marco Revelli – erano già malate prima che arrivasse il virus: erano malate di atomizzazione, di individualismo radicale». E le misure di distanziamento e confinamento «non hanno fatto che rendere visibile quella che era l’ideologia, la pratica del neoliberismo» (p. 47). Proprio perché piombata su una società sfigurata da enormi diseguaglianze, la pandemia non ha, peraltro, colpito tutti allo stesso modo. Come osservano Joselle Dagnes e Marianna Filandri, ad esempio, le conseguenze della didattica a distanza sulla qualità dell’apprendimento e sull’equilibrio psichico di bambini e ragazzi è stata diversa a seconda della situazione familiare e della condizione sociale e abitativa. Per qualcuno si è trattato davvero di una parentesi, che si è aperta e chiusa senza strascichi. Per altri di una cesura drammatica, destinata a lasciare cicatrici profonde.

L’occasione per un ripensamento radicale del nostro modello di sviluppo, comunque, c’era tutta. L’abbiamo saputa sfruttare? O quella che sembrava annunciarsi come una sospensione della corsa cieca verso il baratro (ambientale, sociale, culturale) ha finito per essere interpretata come una momentanea, e inoffensiva, interruzione di un processo sostanzialmente irreversibile e inarrestabile? Non è difficile oggi constatare come l’esperienza della pandemia non abbia generato quella presa di coscienza collettiva, quel rilancio delle lotte per l’uguaglianza, la solidarietà, la dignità del lavoro, l’ambiente, che sarebbe stato possibile, e necessaria. «La mia sensazione – osserva Federico Cramer – è che la pandemia da coronavirus, pur avendo avuto un impatto forte, non abbia avuto un impatto così forte da suscitare […] dei movimenti sociali che permettano una riconfigurazione sociale sostanziale» (p. 81). Dalla pandemia non è nato, ad esempio, un soggetto collettivo in grado di rivendicare con forza la sospensione dei brevetti sui vaccini e l’imposizione di limiti ai “poteri selvaggi” del mercato. Non si è generata una spinta diffusa verso la costruzione di quella “comunità larga”, ispirata alla solidarietà e alla cura, che Aldo Bonomi auspica nel suo intervento (anche se alcune significative esperienze di mutualismo e cooperativismo hanno svolto un ruolo cruciale durante l’emergenza, come ben documenta l’ultima parte di Cronache dalla pandemia). Sono invece sorti agguerriti movimenti no vax, no mask, no green pass. Movimenti che non sono andati oltre la rivendicazione di una libertà declinata in chiave prettamente individualistica, anti-sociale, anti-politica. Una liberté eretta a valore assoluto e incondizionato, totalmente dimentica delle sue antiche compagne, fraternité ed égalité (rimando, su questo tema, a D. D’Andrea, La libertà singolarista al di là del principio di realtà, “Iride”, 3, 2021).

Nel frattempo, ci dice l’ultimo rapporto di Oxfam, «le ricchezze dei miliardari sono cresciute più in 24 mesi di covid-19 che nei 23 anni precedenti» (https://ilmanifesto.it/covid-ogni-30-ore-un-nuovo-miliardario-e-un-milione-di-poveri-in-piu). Dobbiamo concludere – con Mariana Mazzuccato – che anche questa crisi è stata “sprecata”?